LA VIA NEVE ALL’ALLORO

 Francesco Pintaldi

Yakhchal persiano

Luglio, si sa, non è  un mese facile per la vita ordinaria in città, il caldo comincia a raggiungere valori molto alti e l’unico rimedio per evitarlo è stare al fresco da qualche parte, al mare, dentro l’acqua. Può succedere, tuttavia, di doverti inoltrare nelle vie del centro storico divenuto attrazione per turisti e amanti delle tradizioni palermitane. E’ questo il mio caso, divenuto improvvisato cicerone  per inaspettati gruppi di amici presenti in città in occasione del tradizionale festino che ancora, a distanza di 400 anni, riesce a incuriosire ed appassionare un numero straordinario di persone. Già boccheggianti per i circa  40° la camminata inizia da via Alloro e si presenta di buono auspicio visto che appena all’inizio compare ben evidente la targa: via della Neve. Si, via della Neve, mentre fuori imperversano raggi vendicativi del dio Sole. Vai a spiegare ai trasudati turisti che in quella via la neve non poteva esserci! Però, perché questo nome? Via della Neve è in realtà un vicolo, che dalla via Alloro porta alla Marina. Prende il nome da una bottega che vendeva  appunto la neve! certo, quando non si era ancora inventato il frigorifero. Siano nel ‘700 e i nobili palermitani non si facevano mancare nulla, buon vino, dolci e acqua fredda in periodo estivo.  Quella bottega non fu la sola a vendere neve, in città ve ne erano diverse, e facevano buoni affari con gli aristocratici disposti a pagare qualsiasi cifra pur di accaparrarsi un po’ di quel prezioso bene, raro in inverno, figuriamoci a luglio.  La domanda è d’obbligo, già, come poteva esserci la neve? Curiosando fra vecchi documenti   nel 1577, sul Diario di Filippo Paruta e Nicolò Palmerino si legge che in città si incominciò a “bevere  arrifriscato con la neve” .  La conservazione della neve nel XVIII secolo a Palermo rappresentava un esempio ingegnoso di come le risorse naturali venissero sfruttate e gestite con tecniche avanzate per l’epoca, garantendo la disponibilità di un bene prezioso durante tutto l’anno La neve veniva raccolta in montagna nel periodo invernale, nella zona di Troina, Randazzo e Mongibello, e trasportata vicino  Palermo  in fosse costruite con materiale adatto a conservare la neve  per essere venduta, in particolare,  nel periodo estivo. La tradizione è araba.  Veniva raccolta nelle montagne circostanti, come le Madonie e i Monti Sicani, durante l’inverno e quindi  trasportata in città su carri coperti di paglia e tessuti isolanti per ridurre al minimo la perdita di massa a causa dello scioglimento. Il trasporto avveniva principalmente di notte o nelle prime ore del mattino, quando le temperature erano più basse. Essa  veniva conservata attraverso una serie di tecniche ingegnose che sfruttavano le risorse naturali e l’architettura dell’epoca, era considerata  bene prezioso, veniva utilizzata principalmente per scopi medici, alimentari e per rinfrescare le bevande durante l’estate. A Palermo e nelle sue vicinanze, essa  veniva conservata in strutture apposite chiamate niveri. Queste erano grandi fosse scavate nel terreno, spesso rivestite di pietra, che garantivano un isolamento efficace dove  veniva pressata e stratificata, alternata con strati di paglia o foglie secche, che fungevano da isolanti termici. Questa tecnica aiutava a ridurre il tasso di scioglimento. Le nivere erano solitamente situate in aree ombreggiate e fresche, spesso in zone collinari o montuose, dove le temperature erano naturalmente più basse. Alcune nivere erano costruite anche sotto terra o all’interno di grotte per sfruttare la naturale frescura del suolo. La parte superiore delle nivere era coperta con materiali isolanti come paglia, rami e tessuti. Questo aiutava a mantenere una temperatura costante all’interno e proteggeva la neve dalla luce solare diretta. Durante i mesi estivi, la neve conservata veniva prelevata dalle nivere e portata in città. Qui veniva venduta nei mercati locali o utilizzata dai nobili e dai ricchi cittadini nella produzione di gelati e sorbetti.  La neve veniva anche mescolata a succhi di frutta e zucchero per creare deliziosi dessert freddi,  veniva anche impiegata per  scopi terapeutici, per ridurre la febbre e alleviare il dolore.L’uso del ghiaccio era una pratica nota già durante l’Impero persiano, in mezzo al deserto. Esistevano in Persia gli Yakhchal,[1] i pozzi di ghiaccio, strutture architettoniche usate per produrre il ghiaccio e per la conservazione del cibo,  stiamo parlando di oltre 2000 anni fa!   La Zisa di Palermo è un esempio di architettura arabo-normanna che conserva le caratteristiche di raffreddamento naturale, come le fontane interne e l’uso di corridoi d’acqua per rinfrescare l’aria, simili ai principi usati negli Yakhchal. Gli Yakhchal sono un esempio impressionante di ingegneria antica, dimostrando come le culture passate siano state in grado di utilizzare tecniche innovative per risolvere problemi pratici legati alla conservazione degli alimenti e alla gestione delle risorse naturali. Lo Yakhchal che significa, appunto,   “pozzo di ghiaccio“, è un metodo architettonico usato per produrre ghiaccio in modo da conservare  gli alimenti nel periodo caldo. Sono generalmente costruiti con un materiale chiamato “sarooj“, una combinazione di argilla, sabbia, cenere, calce e albume d’uovo, che crea un composto altamente isolante. La struttura è spesso a forma di cupola o cono e raggiungeva circa 20 metri di altezza, ha  pareti molto spesse che aiutano a mantenere una temperatura interna bassa anche durante le calde temperature del deserto. La base della struttura è solitamente interrata, con una serie di canali sotterranei che permettono il raffreddamento naturale. Durante i mesi invernali, l’acqua veniva congelata in bacini all’aperto e il ghiaccio risultante veniva trasferito negli Yakhchal. La particolare architettura e i materiali utilizzati garantivano che il ghiaccio rimanesse intatto per molti mesi. Gli Yakhchal rappresentano un esempio notevole dell’ingegneria e dell’architettura tradizionale persiana. Queste strutture permettevano alle popolazioni di avere accesso a cibi freschi e ghiaccio durante tutto l’anno, migliorando significativamente la qualità della vita.

Il Sarooj

Il sarooj è un materiale innovativo e multifunzionale che ha giocato un ruolo cruciale nell’architettura tradizionale persiana, consentendo la costruzione di strutture resistenti e funzionali in un ambiente spesso ostile. Le proprietà isolanti del sarooj lo rendono particolarmente utile per la costruzione di strutture come gli Yakhchal, dove mantenere temperature basse è fondamentale. La presenza di calce e altri componenti rende il sarooj resistente all’acqua, ideale per proteggere le strutture dall’umidità. La combinazione dei vari ingredienti produce un materiale estremamente durevole, in grado di resistere alle intemperie e al passare del tempo. È composto da una miscela di diversi ingredienti, che variano leggermente a seconda delle risorse locali disponibili, ma che generalmente includono argilla che serve come base della miscela, fornendo struttura e malleabilità, sabbia che aggiunge resistenza e aiuta a creare una struttura più solida, cenere  che  contribuisce alla resistenza e alla capacità di legare gli altri componenti, calce che lega e impermeabilizza, migliorando la durabilità della miscela, albume d’uovo  utilizzato per aumentare la coesione e la resistenza della miscela che  crea una superficie liscia e dura, una volta asciugata.

Utilizzi del Sarooj:

Come detto il sarooj è stato ampiamente utilizzato per la costruzione di Yakhchal, grazie alle sue eccellenti proprietà isolanti e impermeabilizzanti. Con sarooj si costruivano cisterne per la raccolta dell’acqua e bacini per la conservazione del ghiaccio. Grazie alla sua versatilità, il sarooj è stato impiegato in una varietà di costruzioni, comprese le mura delle città e altre strutture civili. Ritornando allo Yakchal, questo aveva una forma a cupola con pareti spesse realizzate in mattoni e argilla. Questa costruzione aiutava a mantenere una temperatura fresca all’interno del caveau. Durante l’inverno, l’acqua veniva raccolta dai fiumi o dalla neve sciolta  in montagna. Quest’acqua era diretta verso lo Yakchal attraverso i canali. L’acqua veniva distribuita in piccoli stagni o piscine all’interno della volta. Durante la notte e nelle ore più fredde del giorno, l’acqua si gelava a causa delle basse temperature del deserto di notte. Una volta congelato, il ghiaccio veniva  tagliato in blocchi e conservato nella parte più bassa dello Yakchal, dove la temperatura era più fredda. La forma a cupola e l’isolamento naturale delle pareti aiutava  a mantenere il ghiaccio congelato per molti mesi. A Palermo, si faceva uso di una varietà di tecniche e materiali per mantenere l’acqua fresca, sfruttando le proprietà naturali della terracotta, l’isolamento dei recipienti smaltati e metodi di raffreddamento come l’evaporazione, l’uso dell’ombra e l’immersione in acqua fredda. Questi metodi riflettono un ingegnoso adattamento alle condizioni climatiche locali. Qui per mantenere fresca l’acqua durante i mesi caldi, si utilizzavano diversi tipi di recipienti, sfruttando materiali e tecniche che favorivano il raffreddamento naturale. I “bummuli” sono recipienti in terracotta e sale ottenuti con una infornatura di circa 1000 gradi,  di forma panciuta e a collo lungo e stretto.  Se la temperatura è inferiore il bummulu non serve allo scopo! È un bummulu fausu, cruru, inutile. Per dire a qualcuno, in segno di insulto,  che è un traditore, che non mantiene le promesse,  in Sicilia si dice: Faccia di bummulu cruru.  Una temperatura più alta di 1000 gradi farebbe spaccare il bummulu. Il bummulu per la conservazione del liquido non viene colorato perché la vernice fa venire meno le caratteristiche igroscopiche del materiale. La sua capacità varia ma quella ottimale contiene circa 8 litri di liquido. Ne esistono però anche di 16 o 20 litri. Quelli colorati servono per lo più come ornamento o vengono usati come strumento musicale,  nelle musiche o cantate folkloristiche. I bummuli venivano utilizzati tradizionalmente in Sicilia per conservare l’acqua o anche il vino o l’olio.  La terracotta è un materiale poroso che consente una leggera traspirazione. L’evaporazione dell’acqua dalla superficie esterna del bummulo ha un effetto rinfrescante sull’acqua contenuta all’interno.

Bummulu artistico da arredamento

Durante le feste di santa Rosalia non era difficile gustare u purpu co bummulu. In pratica si usava il recipiente per cucinare. Nel caso del purpu si mette dentro il bummulu il polpo, il pomodoro, vino, sale, olio, peperoncino e si mette a cuocere al forno a legna.  In un altro bummulu si predispone una buona scorta di vino e la festa è garantita. A bummuli vuoti saranno incantate anche tutte le sirene del mare al canto del beato bevitore. Esiste anche il bummulu malandrino. Malandrinu perché è una brocca furba, proviene dalla tradizione araba. Viene  riempito con acqua o vino dalla parte inferiore che è aperta,  non ci sono tappi al di sotto. Grazie a una cannula posta al suo interno, il liquido inserito non cade da sotto ma si versa solo dal beccuccio appuntito, in modo da creare il vuoto e consentire l’evaporazione del liquido più caldo. Geniale!

Bummulu malandrinu, struttura interna

Le “quartare” sono brocche di terracotta simili ai bummuli ma con una forma diversa. Anch’esse sfruttano il principio dell’evaporazione per mantenere l’acqua fresca. Oltre ai recipienti in terracotta non smaltata, si utilizzavano anche brocche e anfore in ceramica smaltata. Questi recipienti erano meno porosi, ma offrivano comunque un certo grado di isolamento termico. Gli oggetti in terracotta venivano spesso conservati in luoghi ombreggiati e freschi, come cantine o pozzi, per mantenere l’acqua alla temperatura più bassa possibile. Una tecnica comune era quella di immergere i recipienti di terracotta in pozzi o fontane d’acqua fredda,  questo metodo sfruttava la temperatura naturalmente più bassa dell’acqua sotterranea. Un altro metodo consisteva nel coprire i recipienti con panni umidi. L’evaporazione dell’acqua dai panni contribuiva a raffreddare ulteriormente il recipiente e, di conseguenza, l’acqua al suo interno.

Il venditore di acqua fresca.

Era una figura ricorrente nel XVIII secolo ma anche fino a pochi anni fa, per le strade del centro o in chioschi riservati, specialmente durante le feste paesane c’era il venditore ambulante di acqua fresca potabile Vendeva acqua fresca conservata nei bummuli, trasportava la sua merce preziosa nei carretti. Non era solo acqua fresca. Riusciva a saporirla con succhi di limone, era un vero mestiere il suo.  Esisteva una corporazione, quella degli acquarenari. E che dire del preparato che lo accompagnava? Mi riferisco a sua maestà lo zammù. Lo zammù rappresenta un esempio dell’influenza araba sulla gastronomia siciliana, che si è mantenuta viva nei secoli attraverso la trasmissione di ricette e pratiche tradizionali, particolarmente popolare a Palermo. Si tratta di un liquore a base di anice, noto per il suo sapore fresco e aromatico. Il termine “zammù” deriva dall’arabo “zama”, che significa “anice”. Di solito , lo zammù viene consumato diluito con acqua fredda, trasformandosi in una bevanda rinfrescante e piacevole, soprattutto durante le calde giornate estive. Ora è spesso servito in bicchieri piccoli nei bar e nelle pasticcerie siciliane ma resistono ancora i chioschi dove il turista non rinuncia a gustare questa tanto semplice quanto straordinaria  bevanda.

La preparazione dello zammù può variare leggermente ma in genere include i seguenti ingredienti:

  • Alcol etilico
  • Semi di anice o estratto di anice
  • Zucchero
  • Acqua

Questo liquore è apprezzato non solo per il suo gusto, ma anche per le sue proprietà digestive.

L’origine dello zammù in Sicilia risale al periodo della dominazione araba, che iniziò nell’827 e durò fino alla metà del XII secolo. Durante questo periodo, gli Arabi introdussero numerosi elementi culturali e gastronomici nella regione, tra cui l’uso di spezie e aromi come l’anice. Gli Arabi portarono con sé l’abitudine di utilizzare l’anice in varie preparazioni, sia culinarie che medicinali. Questa tradizione si è poi radicata nella cultura siciliana, evolvendosi nel tempo fino a diventare il moderno liquore che conosciamo oggi. E già che siamo arrivati, nel frattempo, a Piazza Rivoluzione in prossimità del genio non posso che affrettarmi ad offrire ai miei ospiti un buon bicchiere di acqua fresca, invogliati da venditore e dalla sua un intramontabile voce di tenore che abbannia:

Accattativi acqua frisca e zammu,

 Giuro che l’ho sentito anch’io, vendevano vera acqua fresca e non parole vuote!

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