TEATRO GRECO DI SIRACUSA 59° STAGIONE
FEDRA- IPPOLITO PORTATORE DI CORONA
Gabriella Maggio
Fedra, Ippolito Coronato di Euripide è stata rappresentata per la prima volta ad Atene in occasione delle Grandi Dionisie del 428 a. C. dove vinse il primo premio. Protagonisti dell’opera sono Fedra e Ippolito, eccessivi ed opposti nelle loro rispettive passioni. Tra loro non c’è dialogo. Nella tragedia ritornano gli dei, Afrodite e Artemide, come simboli tradizionali in cui trova espressione la forza ineluttabile dei sentimenti e dei convincimenti umani. Nel prologo Afrodite dichiara il suo sdegno contro Ippolito, figlio di Teseo, che rinnega l’amore per rimanere fedele a un suo ideale di purezza e di vita virile. Con un’incoerenza che ne tradisce la natura allegorica, la dea realizza la propria vendetta non direttamente sul giovane, ma facendo innamorare di lui la matrigna Fedra. In una precedente tragedia, ora perduta e che gli eruditi antichi avevano contrassegnato con il sottotitolo Ippolito Velato, Euripide aveva fatto rivelare da Fedra stessa il proprio amore al ragazzo, che per la vergogna si copriva il volto col mantello. Ma gli Ateniesi erano rimasti turbati da questo comportamento della donna, decretando l’insuccesso dell’opera. Nel rifacimento “Ippolito Incoronato”, dalla corona di fiori che offre ad Artemide all’inizio del dramma, Fedra è intenzionata a celare la passione che la distrugge anche fisicamente, portando con sé il segreto nella morte. Ma in un attimo di umano abbandono Fedra cede alle insistenze affettuose della nutrice e le rivela l’amore per il figliastro. In un teatro di parola come quello greco, la parola è azione e fa esistere il mondo. La rivelazione dell’eros, quindi, non è solo comunicazione , ma azione, fa esistere lo scandalo anche se a rigore, lo scandalo non si è verificato. La nutrice ignara dei grandi sentimenti dell’eroe tragico, esorta Fedra a non lottare contro la forza di Afrodite, ossia della natura, e, per favorire la padrona svela allo stesso Ippolito la passione della matrigna , vincolandolo col giuramento al silenzio. Ippolito pieno d’orrore maledice la stirpe delle donne. Fedra ha udito tutto e per salvare il suo onore prima di suicidarsi scrive una lettera in cui accusa il giovane di averle usato violenza. Teseo crede alla calunnia e invoca da Poseidone il castigo del figlio. E ancora la parola innesca la seconda fase della tragedia. È la parola pervertita, la calunnia, che accusa Ippolito e lo condanna a morte. Artemide svela l’inganno di Fedra e Teseo si pente della propria credulità. Ippolito in punto di morte lo perdona. I due protagonisti costituiscono i poli di una tensione simbolica in cui si coagula la dialettica di due concezioni della vita. L’uno e l’altra sono colpevoli: Fedra integralmente soggetta alla naturalità dell’esistenza che sopprime la dimensione spirituale; Ippolito rifiuta la corporeità per realizzarsi in una dimensione esclusivamente spirituale. Ma i due poli necessari , allora ed anche oggi, all’equilibrio dell’uomo rivendicano la loro complementarità. I Greci dell’età di Euripide sono ancora lontani dall’ascesi platonica. La tragedia afferma la globalità inscindibile dell’esperienza umana nell’opposizione di due caratteri che sono parimenti votati all’annientamento dalla tragica incapacità di accettare una soluzione del conflitto, in cui la loro stessa natura li ha trascinati. Ma sulla scena non c’è solo la tragedia di Fedra ma anche quella di un padre e di un figlio, Teseo e Ippolito. Il marcato individualismo che caratterizza l’epoca di Euripide ha il suo riflesso nei personaggi che non sono più eroi di sovrumana unicità, ma vengono definiti dall’alterno rispondersi delle azioni degli uomini, che determinano gli avvenimenti con la loro volontà e i loro sentimenti. Il dialogo è l’espressione propria di questa indagine della realtà e ad esso è riservata una grande estensione nel corpo della tragedia con una funzione insostituibile. Al patrimonio mitico Euripide attinge lo spunto tematico, ma lo sviluppa in maniera autonoma ,valorizzando le prerogative umane dei personaggi e mettendole a confronto dialettico tra loro secondo i parametri dell’argomentazione logica e di un’attitudine critica verso i comportamenti umani in nome dell’esperienza pratica. La funzione del coro diventa perciò secondaria . Il suo canto diviene evasione in luoghi d’incantata bellezza, compensazione delle difficoltà del vivere e orgogliosa affermazione del potere supremo dell’arte, la rasserenante verità ultima che sottrae alla precarietà dell’esistenza. A Siracusa nella 59 a stagione teatrale la tragedia è proposta nella traduzione di Nicola Crocetti, per la regia di Paul Curran. Nei ruoli principali è interpretata da Alessandra Salamida, Fedra, Alessandro Albertin, Teseo, Riccardo Livermore, Ippolito, Gaia Aprea , nutrice. Le musiche sono di Ernani Maletta e Mattew Barnes. Movimentano la scena le luci di Nicolas Bovey , il coro delle donne di Trezene e il Coro formato dai giovani dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico, sezione Giusto Monaco. Il pubblico sempre numerosissimo ha applaudito a lungo la performance.