Modernizzazioni e simbolismi
Carmelo Fucarino
Ph. Teatro Massimo
Durante l‘intervallo dell’allestimento interpretativo di I Capuleti e i Montecchi del 22 scorso al Massimo mi diceva, molto adirata, un’amica, violinista di antica data e formazione, che aveva ascoltato ad occhi chiusi l’opera tragica ad apertura di scena e alla comparsa dei primi interpreti. Non poteva più sopportare questi radicali mutamenti scenici di ambienti e costumi. Non si è ancora abituata alla generale attualizzazione e modernizzazione di tempi storici, stravolgimenti di luoghi e abbigliamenti del tempo. Non fa nulla se nel canto l’attore canta di spada e nella realtà compare con una moderna pistola. Nel caso di questo allestimento diventa ridicola l’attualizzazione con vestiti e ambienti odierni nelle scene se poi nella recitazione si ricorre all’uso settecentesco e oggi frastornante del mezzosoprano en travesti. Fu uso abbastanza normale nel periodo dell’opera barocca e classica (‘600 e ‘700), sia per la proibizione di impiegare le donne sul palcoscenico, in alcuni teatri come a Roma e Lisbona, perciò la loro sostituzione con castrati, celeberrimo Carlo Broschi, noto come Farinelli (1705- 1782), ma anche per l’estetica del tempo che stilizzava la voce di donne e castrati atte ad esprimere lirismo e “meraviglia” rispetto allo stile inteso volgare come il bari-tenore e il mezzosoprano. Si immagini la comica stonatura e l’incongruenza moderna di introdurre una donna, che allora era tassativamente esclusa dalle scene, tanto da portare all’orrendo e cruento ricorso ai castrati, gli antichi eunuchi sottoposti in età puberale all’evirazione (come oggi i cani e i gatti padroni delle case odierne), già in altri contesti cronologici e culturali, presente in Terenzio e in molti luoghi della Bibbia cristiana, necessari e abituali negli harem degli emiri (vedi le Mille e una notte), fino al 1593 nella Clorinda della Gerusalemme Liberata di Tasso, allevata dall’eunuco Arsete. Perciò di estrema contraddizione e conflitto con il ricorso ai costumi odierni assieme al castrato barocco che oggi risulta ridicola e fuori ragioni logiche e cronologia. Anch’io ad inizio sono caduto nella trappola e non riuscivo a capire chi fosse Romeo. E dire che l’ultimo castrato fu Angelo Moreschi (1828-1922), ‘L’Angelo di Roma’, impiegato nella Cappella Sistina fino al 1913. Straordinario documento la sua registrazione, l’unica di castrati. Pare che incominci ad imperversare questa moda, anche se abolita e proibita la castrazione, metodo già adottato per la seconda volta in quest’anno al Massimo nell’Orfeo ed Euridice con il controtenore Filippo Mineccia, specializzato nella tradizione antica e nella lirica barocca. In questa edizione l’altra mistificazione divenuta assai di moda e già vista questa estate a Siragusa nella Medea di Euripide (regista Federico Tiezzi con Laura Marinoni), l’uso fantasioso e allusivo delle maschere di animali, simbolismo moderno, i bambini coniglietti e i coccodrilli di Creonte e delle sue guardie, iconici di falsa pietà e finte lacrime, qui nell’opera lirica degli esseri mostruosi che non sono riuscito a decifrare a primo acchito e a ricavarne la simbologia, forse i demoni infernali. Ma forse è meglio parlare dell’opera tragica in due atti di Bellini dal punto di vista storico. Lunga e complicata la storia del libretto di Felice Romani, adattamento di un suo precedente lavoro, già per il Giulietta e Romeo di Nicola Vaccaj. Questa si basava a sua volta su un’altra tragedia di Luigi Scevola tratta dal Romeo e Giulietta di Shakespeare. Bellini ebbe solo un mese e mezzo di tempo nel 1830 (fine di gennaio ed i primi di marzo) per comporla per il Carnevale di Venezia del teatro La Fenice. Perciò dovette attingere ampiamente a motivi della sua Zaira, grande suo insuccesso dell’anno, ove la coppia dei protagonisti, fratello e sorella, è affidata a due voci femminili . La romanza di Giulietta Oh! quante volte, oh quante!, brano più famoso dell’opera, fu invece ripresa dalla sua prima opera Adelson e Salvini, non riciclando, ma rielaborando la vecchia musica, per adattarla ai personaggi, ai versi ed agli interpreti, tanto che in alcuni brani è difficile rinvenire l’originale. Nonostante la fretta e il riuso di temi nella resa canonica creativa di Bellini delle macrostrutture e microstrutture operistiche, l’articolazione interna dei numeri musicali portò ad un grande successo e gettò le basi nella struttura successiva, dalla prima rappresentazione l’11 marzo 1830, nonostante la breve ripresa, solo otto serate fino al 21 marzo. Poi fino al 1835 trenta differenti produzioni e regolarmente fino al 1835 e agli anni 1860. Ma data la semplicità dovette subire ancora stravolgimenti, tanto che il patetico duetto finale venne spesso sostituito con il finale dell’opera di Vaccaj, come Maria Malibran. Nel 1900 Romeo ebbe voce di tenore, così nell’incisione diretta nel 1966 da Claudio Abbado. Invece versione filologica fu quella di Riccardo Muti del 1984 (Agnes Baltsa-Romeo e Edita Gruberova-Giulietta.
La realizzazione odierna del Massimo, tenebrosa e tragica, nelle scene di Riccardo Massironi e le luci di Bambi con il ricorso all’abusata nebbia che non so quanto possa essere ecologica, non solo per le prime file, così nell’opprimente regia e coreografia di Idan Cohen, forse è salvata dalla direzione dell’ormai nostro direttore Omer Meir Wellber. Dei costumi di Edoardo Russo tutto si può dire e ognuno ha le sue opinioni sulla resa odierna di un’opera in cui canta una donna vietata sulle scene e perciò sostituita dal castrato. Stupenda la sintesi voce e resa scenica di Maria Kataeva- Romeo, russa di Siberia e protagonista ad agosto nel Rossini Opera Festival, in coppia in concerto anche con Placido Domingo, così superba la ripresa del soprano valenziano Giulietta Marina Monzó. Tutto il semplice complesso canoro ha reso accettabile la serata a difesa e onore della musica che ormai per certe fantasiose realizzazioni, inventate per suscitare meraviglia e stupore, nella convinzione che per interessare un pubblico ignorante di musica operistica si abbia bisogno di marchingegni scenografici e di intrusioni cervellotiche, il colpo della strega del secentismo e dell’impensabile. Certamente come le realizzazioni di Siracusa che riprendono vicende a. Chr., personaggi e costumi di pura archeologia, come l’opera lirica di scena è pura archeologia, raramente rappresentate le opere di autori moderni e recenti. C’è tuttavia da precisare che l’opera lirica fu inventata su una interpretazione della struttura della tragedia ateniese, sintesi di parola e canto, dalla Camerata dei Bardi, la celebre Euridice di Caccini o l’Arianna di Claudio Monteverdi. E fortuna che il testo è stato eccezionale nella musica e nel canto, nella resa interpretativa. Perciò da lodare anche il tenore rumeno Tebaldo-Ioan Hotea, Capellio Marco Spotti, basso profondo, reduce anche lui dal Rossini Opera Festival e il basso Lorenzo-Gabriele Sagona, Premio alla carriera 2022 – Circolo della lirica di Padova. Grandi performance Scena e romanza Oh quante volte, oh quante (Giulietta), il Duetto Sì, fuggire, a noi non resta (Romeo, Giulietta), Coro Lieta notte avventurosa.