JOSÉ RUSSOTTI «UN ROZZO GUASCONE» FRA TERRE E CIELI
Giuseppe Rando
Un forte dualismo si evidenzia, d’abord, nelle liriche della prima raccolta poetica in lingua (Brezza ai margini, Museo Mirabile, Marsala 2022) di Josè Russotti, che si presenta al lettore, ora, come un poeta decisamente lirico, sagace fruitore della rivoluzione ermetica (cioè del fonosimbolismo, della dimensione allusiva, timbrica, ritmica – non solo referenziale – del segno poetico), però spinto al recupero memoriale, introspettivo, pressoché solipsistico di eventi e persone della sua vita, ora, per converso, come un poeta incline alla vocazione sociale dell’intellettuale democratico e quindi insofferente delle strettoie ermetiche. Certo, egli usa il verso libero e adotta talora, come gli ermetici, un lessico vago, imprecisato e immagini più allusive che semanticamente esaustive, ma mira, nel contempo, alla comunicazione, alla leggibilità, e quindi alla poesia anti-ermetica, «corale», per dirla con Quasimodo: si tratta, insomma, di un dualismo tematico, da un lato, e metrico-stilistico, dall’altro, difficilmente gestibile, peraltro. Si direbbe, ad ogni modo, che in Brezza ai margini prevalga la vocazione lirica del Mavvagnotu, evidenziata anche dall’invadenza, nelle sue poesie, della voce di un «io poetante», che si agita perennemente tra il desiderio di vita e l’ansia-paura della morte, tra l’amore (coniugale, filiale, materno, paterno) e il disamore, tra il dolore di orfano-esule e la speranza di un risarcimento sociale, tra l’inferno patito e il paradiso sognato. E ciò, con forti accensioni linguistiche e stilistiche. In almeno cinque componimenti della raccolta (XIII, XIV, XV, XX, XXI), si appalesa, tuttavia, una decisa componente sociale della poesia di Russotti, che assume connotazioni e vibrazioni di stampo quasimodiano, pasoliniano e perfino cattafiano. Il poeta messo da parte il suo io dolente e risentito, guarda attorno a sé, divenendo quasimodianamente partecipe del dolore dei «fragili» che sono vessati e perfino uccisi dai potenti: gli emigranti, extracomunitari, in ispecie, vittime della brutalità della storia e i morti di Covid. In essi il poeta emigrante si identifica, a tal punto che, nella prima strofa, della XIII poesia, presta loro la sua voce e diventa di fatto uno di loro: «Ci ha lasciato la madre che ci nutrì / col latte del seno e sedano crudo» (un distico sublime, invero). Nella lirica successiva, la «gente» (forse, i parenti dei morti per Covid) «piange e stringe le ossa / dentro un fazzoletto intriso di memoria», e nella quindicesima il poeta «corale» registra accorato il «greve allinearsi delle bare» dei morti. Nei componimenti XX e XXI lo stesso acceso espressionismo presiede alla visione dei corpi dei migranti che affondano, gonfi di sterile salgemma, mentre le barche approdano vuote: il poeta porge «alla faccia stupita degli stolti / un piatto ben condito di sapienza». Lo stesso bifrontismo tematico e stilistico (tra la dimensione lirica, introspettiva, memoriale e la vocazione sociale), appare, con nuovi intendimenti, nella terza raccolta poetica in lingua di Josè Russotti, Ponti di rive opposte, pubblicata a Piazza Armerina, nel 2023, presso Nulla die di Massimiliano Giordano.
Delle quattro sezioni di cui il libro si compone, la prima (Pieghe all’ombra della sera) è imperniata sull’io dolente e tuttavia indomito del poeta, consapevole del sua solitudine e del suo disagio esistenziale in un mondo incapace di amare e di capire: «Ramingo e solitario nell’anima, orfano di padre e di madre assente, / stretto nell’angolo buio, spegnevo le mie paure / cantando tristi canzone d’amore / […] Un batuffolo indifeso / attorno al lordume dei grandi, / teso a implorare carezze / che nessuno mai seppe donare» (p. 31); «Con le mani impazienti / sul pomo della notte, / erro per l’infinito / come un bimbo col suo veliero: / cosmonauta vagabondo / nelle costellazioni dell’Io / per scoprire ciò che la vita / non ti permette di scoprire » (p. 48); «Smarrito nelle pieghe della vita, / vivo la duplice angoscia / sui ponti di rive opposte» (p. 20); «Io amo il mio vitigno e i figli d’allevare, / il vino nel bicchiere e il grano da mietere. / […] lontanissimo / dalla vanità dei colti / come un rozzo guascone, / prenoto ancora un posto / per nuovi sogni / da raccontare» (p. 37). Donde, l’avvertenza dei limiti personali («Sono / figlio della Poesia e mi nutro di parole, / vivo nella lusinga dei miei errori / e solo nei versi la mia morte desiste dal morire», p. 26; «Parea una piccola screziatura / nei riflessi dell’alba policroma, / […] Parea la fine del suo tenero silenzio / […] È la mia fragile ombra, / che mi segue ancora […]», p. 40, [il corsivo è mio]), ma anche l’orgoglio dei valori coltivati: «In un urlo feroce di bandonéon argentino / cantai al cielo / lo sdegno per le futili apparenze / e il falso moralismo, / fino a far tremare i polsi / degli astanti» (p. 18). Anche se lo sdegno per la malevolenza dei potenti sconfina talora negli eccessi della paranoia: «Li avevo tutti addosso / l’aculeo piantato sulla lingua, / la stizza del prete dietro la schiena, / gli occhi degli altri fissi su di me» (p. 30); «Non mi turba il vostro stupore / né l’infamia delle parole» (p. 37). Quanto dire che, in Ponti di rive opposte, Russotti fa un passo avanti: non indulge all’elegia del paradiso perduto dell’infanzia, come in Brezza ai margini, ma oppone più decisamente la sua alterità di «rozzo guascone» alla cultura dominante. E, su questa stessa lunghezza d’onda, la polemica esplicita contro critici e poeti mediocri ma acclamati dai più: «[…] mi ritrovai fra le mani / esempi di poesia macellata / da finti poeti, svigoriti di parole / e vuoti endecasillabi rimati» (p. 18); «Ma se la vivida poetica degli avi non traspare / nei monitor accesi della sera / l’indicibile oltraggio cova / nella stupidità degli accoliti. / Nei predicatori del nulla / e nella fragorosa autocelebrazione / di chi non conosce la decenza. / Non è il male che insinua le menti /ma l’estremo dilagare dell’insanabile / mediocrità» (p. 43). Dove sono esplicite le isotopie disforiche di «finti poeti», «vuoti endecasillabi», «stupidità degli accoliti» ecc., sull’asse semico della «mediocrità» come vero «male». Né manca, in questa prima sezione, del libro la testimonianza della religiosità (quasi francescana) del poeta, tuttavia immune da ogni forma di clericalismo: «ho imparato a domare l’orgoglio / e ho camminato al fianco degli scartati» (p.26); «Ogni Pasqua che arriva non lenisce il mio dolore / è solo un giorno come tanti: / il rito della resurrezione è una parte / che non mi si addice» (p. 38). Anche da questa sintetica documentazione, si possono cogliere alcuni aspetti precipui dello stile poetico di Josè Russotti, il quale a) predilige un lessico chiaro fino ai limiti dell’oltranza («lordume dei grandi», «futili apparenze», «il falso moralismo», «poesia macellata», «predicatori del nulla», «l’insanabile / mediocrità»), b) adotta talora un’inedita, raffinata associazione di nome e aggettivo («alba policroma», «tenero silenzio», «fragile ombra» p. 40) e costrutti metaforici («sul pomo della notte», «provo a scavare con le unghie strappate / tracce del mio passato»; «Lo strazio / è sale che sa di abitudini»; ) nonché similitudini («danzano i pensieri / come l’erba fra i sassi», p. 19) e immagini («Io amo il mio vitigno e i figli d’allevare, / il vino nel bicchiere e il grano da mietere») molto personali, desunti chiaramente dalla cultura contadina e innestati in contesti verbali e stilistici di diversa caratura.La seconda sezione del libro, Naufragio, contiene poesie intessute intorno all’amore coniugale, non privo di forti accensioni erotiche, corporali. Si alternano, difatti, liriche tenerissime che cantano – o recuperano dai flussi della memoria – momenti di assoluta tenerezza («[…] la tua mano sul viso / mi dà un senso / di raro sollievo», p. 55), a cui non difetta mai, però, l’inevitabile legame carnale del vero amore: «Nell’approssimarsi incerto del mattino, / quel poco o molto che rimane / del tuo splendido sorriso / ha il verso di certe nenie infantili. E […] riparto / per nuove galassie inesplorate / annegandomi, da ora alla fine, nell’insenatura del tuo / florido petto» (p. 57). Il poeta esprime, invero, sentimenti antichi, universali, forse imperituri, con un linguaggio forte, inusuale, pregno di fremente, non dissimulata carica erotica: «Linfa e sudore coprono / la tua pelle di sposa fedele, /mentre l’intrepida mano / affonda nella verticale ambìta / della tua calda ferita. Le dita la sfiorano appena / per non fermare / l’estasi sublime / del ritrovato desiderio». Non casualmente, le isotopie erotiche – «sudore», «pelle», «intrepida mano», «calda ferita», «estasi», «desiderio» – convivono armonicamente, nei contesti citati, con quelle della castità coniugale: «raro sollievo», «splendido sorriso», «sposa fedele». E vale, a stento, la pena di sottolineare come tali isotopie siano, di norma, antitetiche, in gran parte della cultura e della poesia moderna, dove permane la scissione antica, forse di origine cattolica (più che cristiana), della donna nelle due ipostasi di angelo (madre, moglie, sorella) e demonio (amante, prostituta). Certo, poetesse come Alda Merini, Patrizia Valduga e la messinese Iolanda Insana hanno ampiamente ricomposto, nelle loro opere, quella orrenda scissione, consegnando al lettore un’immagine unitaria della donna, ricca di luci e ombre, di carnalità e di spiritualità(come in tutti gli esseri viventi).E tuttavia la poesia di Russotti assume, in questo ambito, un rilievo non marginale. Ma non c’è – si badi –, nelle liriche amorose del Mavvagnotu, alcuna esaltazione panica o, men che mai, maschilistica, dell’amore: semmai la consapevolezza della senescenza incombente: «Ti dormo accanto … Mi dormi accanto / nel tuo lieve respiro costale, / mentre un gallo lontano / svela un altro mattino». La terza sezione, Il Lavacro, ritesse, con accenti di assoluta purezza espressiva, l’amore del poeta per la madre scomparsa: «Solo nell’approssimarsi dei giorni / quel poco o molto / che mi è rimasto di te e di me, oh madre mia, / assumerà il verso / di certe nenie infantili» (p. 75); «La rivedo ancora, in un sogno di sempre, / quando prima della scuola / mi sistemava i bordi del bavero bianco» (p. 77). Se non manca, invero, in alcuni componimenti di questa e nelle altre sezioni, così come nella precedente silloge, qualche oscurità superflua (di matrice ermetica), bisogna riconoscere che sfiora i vertici del sublime la suddetta lirica III di p. 77, in cui è ridotto al minimo l’armamentario poetico e il dettato, pur conservando il ritmo inconfondibile della poesia, si accosta molto alla prosa: «Le braccia incrociate sul petto / davano il senso compiuto dell’atto finale: / crudele da vedere. Duro da scordare. / Eppure, alla fine, a guardarla sul volto / pare che ci sorridesse ancora» (p.78). Negli ultimi due componimenti del Lavacro, il poeta-figlio rimpiange, con la stessa composta premura la scomparsa del padre: «Piansero i tuoi figli indifesi / […] aspettando ancora e per sempre / il vano ritorno!» (p.83). La vocazione sociale del poeta è presente, infine, insieme con qualche, allusiva lirica di congedo («avverto il lento declinare dell’ombra», p.95), nell’ultima sezione del libro, In Memoria. Josè Russotti, sensibile, in ispecie, al dramma dell’emigrazione, rievoca lo scempio del corpicino del piccolo Aylan, «curvo sul muto arenile di Bodrun», dove «al duro infrangersi dell’onda / si estinsero i tuoi sogni» (p. 91), o leva un inno solidale in ricordo di un eroe siciliano, militante di Democrazia proletaria, noto per le sue denunce contro Cosa Nostra, da cui fu assassinato il 9 maggio 1978: «la mia anima impura / non rinuncerà al tuo canto possente/ dell’ultima volta: grido superbo/ di agile armonie» (A Peppino Impastato, p. 93), o leva un canto per Mimmo Asaro, il poeta contadino, pressoché dimenticato, che ha rubato «parole alla terra/ e le lasciò andare al vento» (Un canto per Mimmo Asaro, il poeta contadino, p. 94). Una strana sezione, interna alla sezione In Memoria, è costituita da una sola lirica, Per Amalia, dedicata alla poetessa Amalia De Luca, amica e sodale di Russotti, peraltro presente nella raccolta con quattro sue liriche che aprono ciascuna delle quattro sezioni della raccolta stessa. Della poetessa palermitana, versata ai ritmi lievi, armoniosi, sincopati di una poesia luminosa, ricca di cieli, venti, mari, fiori, uccelli, con aperture improvvise all’assoluto, Russotti rimemora, con profonda simpatia, «il tocco lieve delle fragili ali», le «ciglia di teneri turioni», le parole «di rara bellezza», il corpo che resiste al «tempo delle stagioni», la «voce scavata dal profondo dell’anima», ma soprattutto la serena cordialità di chi lo chiama «nel cuore del silenzio per dirgli che l’ibiscus/ non fiorisce più nel suo terrazzo» (pp. 99-100). Quanto dire, in conclusione, che il poeta siciliano di Malvagna (Mavvagna in dialetto, donde Mavvagnotu) si autentica, senza meno, come una delle voci più originali e autentiche della poesia contemporanea