ACCADEMIA SICILIANA
Francesco Paolo Rivera *
Nasce a Palermo, nel 1790, come società di cultura della lingua siciliana. L’Accademia sosteneva l’obbligo di scrivere e parlare in siciliano: non soltanto i componimenti letterari, le poesie e le altre attività dovevano essere in dialetto siciliano (forse è meglio dire in lingua siciliana), ma anche le leggi dell’istituto. Tale iniziativa sorse sotto gli auspici del Meli e per iniziativa di un giovane giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. Tale accademia non aveva una vera e propria sede, i suoi membri si riunivano nelle case patrizie: i nobili che aderirono all’iniziativa, il P.pe di Trabia, il C.te di Torremuzza, il M.se di Roccafore. Il P.pe di Furnari, nei vent’anni dell’esistenza di tale Accademia, aprivano i loro palazzi dove accoglievano coloro che aderivano a tale iniziativa. Venivano serviti, come era costume a quell’epoca, da camerieri in livrea, lauti rinfreschi agli intervenuti. Sarebbe stata una offesa alla generosità degli intervenuti non accogliere con grande ospitalità tutti coloro che aderivano a tale iniziativa. Non partecipavano cronisti e non si pubblicava nulla sui giornali … non si cercava pubblicità o riconoscimenti ufficiali; non risulta che abbiano partecipato ai convegni i soliti poetucoli disturbatori o altri personaggi ostili. Gueli, Alcozer, Scimonelli, Francesco Sampolo, La Manna, Calì, Catinella e Mondino, questi i nomi di alcuni tra coloro che, con grande entusiasmo, portavano avanti il programma della lingua siciliana (1). Giovanni Meli era il Presidente e tra i soci, anche un non siculo, Michelangelo Monti (2). Francesco Sampolo (3) recitò, naturalmente in siciliano, le lodi della lingua siciliana, e il Meli esaltò (in un sonetto pubblicato nel 1805) la lingua siciliana:
“Viva la nostra lingua. Iddiu la guardi!
Amatila, e “ ‘un circati ‘na matrigna;
Sia cura e triddu di muli bastardi
Lu zappari di l’esteri la vigna.
L’istintu di natura anchi li pardi,
anchi a li tigri stu duviri insigna;
urla lu lupo quanno à fami o s’ardi,
né s’impresta lu gergu di la signa.
Lu sulu pappagaddu nfurgicata (che ha mangiato troppo)
S’av ‘na lingua pri parrari a matti,
Facennu d’accedd’omu capriata.
Multi Accademj eu sacciu accusì fatti,
Grec’itali-latini. Allurtimata
Chi aveti ntisu? ‘Na sciarra di gatti.”
Il 18 ottobre 1793 (appena tre anni dopo la sua fondazione) un altro poeta, Ignazio Scimonelli, recitava una ode saffica (4):
“Non mettu peccu a Grecu o Germanisi,
Né a Turcu o Francu, o Latinu o Spagnolu,
Ma bedda carta mi cunta in cannolu,
Lingua e Paisi.
E pri sta lingua sugnu tantu vanu,
chi mortu, e prima di essere urricatu,
Lu miserere lu vogghiu cantatu
‘n sicilianu.
Sarrà in latinu ben fattu, ben dittu,
ma un miserere in lingua nostra misu
L’arma mi la fa jiri ‘n paradisu
Drittu pi drittu.
Come è facile notare questi poeti, aderenti all’Accademia Siciliana avevano quale unico scopo quello di valorizzare la lingua siciliana perché diventasse la lingua ufficiale dell’isola, ed evitavano, con grande prudenza, di coinvolgere le loro liriche, non solo, in campo politico o teologici, ma anche e soprattutto a semplici allusioni al Re o a Dio, insomma “parum de principe, nihil de Deo” (5). Un altro sacerdote, Giuseppe Catinella, volendo dimostrare la superiorità della lingua siciliana su qualunque altra lingua e la ricchezza dei modi propri e figurati coi quali si poteva esprimere in “lingua siciliana” il verbo “Fujire (fuggire)”, compose un sonetto interamente dedicato alla “fuga”:
“Li cani si chiamau, si la svigna (è scappato);
Si la sulau (è scappato); lu stigghiu (le masserizie) si cugghiu;
Già pruvuli di botto addivintau;
Santi pedi, ajutatimi; spiriu.
Sticchia e vassinni; a curriri appizzau;
Si l’allippau (fuggito in fretta), marciau; si la battiu;
Si la filau, la coffa si pigghiau;
addivintau diavulu; partiu
Sti modi ed autri, lu Sicilianu
Li ‘mpasta, li rimpasta, e cancia e scancia,
eh! Chi lu diri nostru è supra umanu.
L’havi sti cose la Spagna, la Francia?
L’havi lu ‘Nglisi? L’havi lu Tuscanu?
Ch’hann’aviri! La peste chi li mancia!
Nel quotidiano palermitano del 9 dicembre 1794 un anonimo lodava “la lingua materna” (il siciliano) e suggeriva l’uso del toscano come lingua di tutti. Questa proposta fu violentemente contestata nelle pagine dello stesso quotidiano, molti coloro che si schierarono a favore della lingua siciliana e contro il toscano (venne definito “nemico della patria”!). Ogni controversia tra accademici, finiva puntualmente al Palazzo Senatorio. L’Accademia, dopo la decapitazione di F.P.Di Blasi (6) venne soppressa per un certo periodo, e poi ricostituita nella casa del Marchese di Roccaforte, nella quale si ripresero, sempre sotto l’egida del Meli, le riunioni, anche se ebbero inizio, tra gli aderenti, le grane. Fu, persino, proposto di sottoporre alla preventiva censura ogni componimento poetico che avrebbe dovuto essere letto in pubblico … (non bastava la censura governativa sulla stampa …?) … Cominciarono le liti tra poeti … il Meli tentava, con tutte le sue forze, di mettere la pace tra gli accademici per evitare di mettere in pericolo la serietà degli studi …, purtroppo si aveva a che fare con persone facilmente irritabili, con poetucoli novellini e presuntuosi, con i quali non si riusciva a tenere in ordine le cose, e spesso le “liti” degeneravano anche in dispute di natura “politica”. Allora il Meli, considerato che non riusciva, in alcun modo, a dirimere le vertenze e riportare la concordia tra gli accademici, perduta la pazienza, scrisse un ultimo sonetto, dedicato al Conte di Torremuzza, contro “alcuni poeti siciliani”, mediante il quale mise in evidenza, con un certo umorismo anche se con tanta amarezza, la situazione venutasi a creare per la quale l’unico rimedio era sicuramente quello di abbandonare l’iniziativa …
Scuvai di puddicini ‘na ciuccata,
e allura li sintii ciuciuliari
cu la scorcia e li frinzi (straccio) ‘mpiccicata,
mi lusingai chi mi nn’avia a prigari.
Ma ora ch’annu la cricchia già spuntata
Si mettinu ‘ntra d’iddi ad aggaddari,
ne trovo a cuntintarli nudda strata.
Né ‘nsemmula, né suli vonnu stari.
Cerca ognunu cumpagni a sulu oggettu
Di putirici dari pizzuluni:
dicinu chisti: appara tu, ch’eu mettu.
Cui s’arrisica starici in comuni,
Si a mia chi pri accordarli m’intromettu,
pri la facci mi tiranu a santuni?
O Conti miu patruni.
La censura, pri quantu iu viu e sentu,
è di pizzuliare lu strumento.
Da chiustu iu ni argomentu
chi pri cuitare sti sautampizzi
lu menzu è di tagghiaricci li pizzi.”
Così ebbe termine l’Accademia siciliana.
* Lions Club Milano Galleria – distretto 108 Ib-4
- tra i vari componimenti la cantata “tra i beni e le virtù” del 1792 per il compleanno del Re Ferdinando di Borbone, l’”Aretusa e Alfeo” nel 1794, il “Sogno di Enea” nel 1795;
- era un nobile di famiglia genovese, morì a Palermo il 13 febbraio 1823 ed è sepolto a Palermo in San Domenico:
- aveva la carica di recettore (operatore culturale dei princìpi dottrinari e morali della Chiesa);
- nome dei metri lirici usati dalla poetessa Saffo;
- parlare poco di Dio e per nulla del Principe:
- prima di chiudere questo articolo, vale sicuramente la pena di accennare, anche se molto sinteticamente, a questo illustre palermitano: chi fu Francesco Paolo Di Blasi? … sconosciuto a molti, fino a quando, in tempi molto recenti, non venne dato il suo nome a una via di Palermo (tra via Libertà, via Piemonte, piazza Unità d’Italia) … fino a quando Leonardo Sciascia non lo ha fatto conoscere nella sua opera “Il Consiglio d’Egitto”. Nasce a Palermo nel 1755, di famiglia patrizia (il padre Vincenzo ricoprì parecchi incarichi pubblici, fu governatore del Monte di Pietà, Senatore e Sindaco), studioso di lingua latina e di francese, scrisse alcune operette e canzoni sia in lingua italiana che in lingua siciliana; partecipò alle varie Accademie che coltivavano la cultura, la lingua e la poesia siciliana. Avvocato, nel 1779 aveva elaborato una riforma tributaria che colpiva i latifondisti, fu seguace delle nuove teorie politico sociali del Beccaria, del Filangeri, di Mario Pagano. Ebbe contatti con il M.se Domenico Caracciolo, Vicerè di Sicilia (dal 1781 al 1786) con il quale condivideva la necessità di un nuovo censimento nel Regno e di una valutazione dei beni fondiari per una ripartizione delle tasse … come non si parla mai di un ceto di persone che posseggono i due terzi della Sicilia e sono esenti da tasse, … far pagare le tasse agli enti ecclesiastici e ai latifondisti, abbattere la potenza dei baroni, … insomma togliere i privilegi abusivi. Al Vicerè Caracciolo seguì Francesco Ferdinando Avalos d’Aquino nono P.pe di Caramanico e sesto Duca di Casoli, il quale continuò la politica illuministica del suo predecessore, abolendo le prestazioni obbligatorie e gratuite dovute ai feudatari e l’abolizione della servitù delle gleba nelle campagne, e riducendo da dodici a quattro la partecipazione dei nobili nel governo dell’isola … fino a quando l’8 gennaio 1795 … cessò improvvisamente di vivere … (secondo la voce popolare … non per volontà di Dio, ma per mandato del ministro Acton). Il De Blasi si interessava, intanto, della riforma del potere giudiziario, e in particolare dei ruoli dei giudici, della tempestività della fase istruttoria, dell’abolizione della tortura, della riforma della legge sulle successioni ereditarie (il maggiorascato), … addirittura si interessò anche della scuola, auspicando una scuola pubblica e laica, obbligatoria per entrambi i sessi … in pratica, accolse senza riserva la dottrina dell’eguaglianza rousseauniana. Tutte queste teorie erano in aperto conflitto con i privilegi baronali. Pertanto per evitare l’evoluzione di tali ideologie progressiste, in conseguenza del decesso del Caramanico si preferì non nominare più un vicerè ma un Reggente provvisorio, nella persona dell’arcivescovo di Palermo e Monreale, Filippo Lopez y Royo, che preludeva il ritorno al potere baronale. Probabilmente fu quello il momento in cui Il De Blasi cominciò a pensare a una “Repubblica siciliana” … il popolo, sceso in piazza, si sarebbe appropriato del potere. Tuttavia la cosa non era del tutto scontata, il De Blasi si ispirava ai principi della rivoluzione francese, alla Francia, a Rousseau e ai giacobini, ma i francesi e i giacobini erano i nemici giurati del popolo siciliano (malgrado fossero trascorsi cinque secoli i palermitani non avevano dimenticato I Vespri …). A questo punto un tal Giuseppe Teriaca (amico o compagno del De Blasi), confessandosi con il parroco della Chiesa di San Giacomo alla Marina svelò il programma del complotto che avrebbe dovuto rovesciare la Monarchia in Sicilia, (il sequestro dell’arcivescovo Filippo Lopez y Royo in occasione della Processione del venerdì Santo del 3 aprile 1795 al grido “Viva la Repubblica, abbasso i privilegi”). Il parroco ricattò il penitente (se non denunciava la congiura lui non lo avrebbe assolto) e lo convinse a denunciare tutti i congiurati. Il De Blasi fu arrestato (assieme ai suoi compagni Giulio Tinagli, Benedetto La Villa e Bernardo Palumbo) e fu sottoposto a tortura, per ben due volte. Pare che uno dei giudici gli abbia rivolto la parola: “Hai scritto che la tortura è contro il diritto, contro la ragione e contro l’uomo, ma su quello che hai scritto resterebbe l’ombra della vergogna se tu non resistessi, … hai risposto in nome della ragione e della dignità, ora devi rispondere col tuo corpo, soffrirla nella carne, nelle ossa, nei nervi e tacere … quello che avevi da dire sulla questione lo hai detto …! … e, infatti egli non fece mai il nome dei congiurati, e quindi venne condannato a morte. La sentenza fu eseguita, (essendo di nobile famiglia) mediante decapitazione (fu l’ultima eseguita) in piazza Indipendenza (allora denominata piazza Santa Teresa) il 20 maggio 1795, mentre gli altri compagni furono giustiziati mediante impiccagione. Una lapide infissa nel muro della Caserma Garibaldi (in piazza Indipendenza) ne ricorda l’evento. : “In questa piazza il dì 20 maggio 1795, Francesco Paolo Di Blasi, giureconsulto insigne, propugnatore invitto dei diritti dell’uomo, per accusa di cospirazione repubblicana, cadeva ucciso dal carnefice. Il Municipio, nella ricorrenza del centenario, questa lapide decretava.”