PËTR IL’IČ ČAJKOVSKIJ E GLI AMORI IMPOSSIBILI

Carmelo Fucarino

Ph Rosellina Garbo

Certamente in ogni campo artistico, dalla pittura alla poesia alla narrativa, tutto è autobiografia: l’artista ricrea in arte le sue esperienze di vita. Questa lettura interiore è sfacciatamente realizzata in Evgenij Onegin (Евгений Онегин), op, 24, di Pëtr Il’ič Čajkovskij, rappresentata al teatro Malyi di Mosca il 17 (29) marzo 1879. John Crango nel 1965 ricavò dalla musica un balletto. Essa è l’opera lirica la più complessa ed equivoca sia dal punto di vista strutturale della storia, sia della sua elaborazione nella tradizione dell’opera lirica. Ben poco si realizza qui dal suo amore sviscerato per Mozart che gli faceva dire sconvolto, alla vista del Don Giovanni: «Ho sfogliato per due ore la partitura originale di Mozart. Non posso descrivere l’emozione provata nell’esaminare il sacro oggetto [corsivo della fonte]. Mi è sembrato di stringere la mano a Mozart in persona e chiacchierare con lui». Eppure la sua struttura narrativa è quanto mai lontana dal maestro ed anche dall’opera all’italiana, si sviluppa in Scene liriche in tre atti e sette quadri”, talvolta attraverso arie troppo lunghe e prolisse  (N.9, Scena della lettera, Aria di Onegin, atto I, Aria di Lenski, atto II, Aria di Gremin, atto III), così anche lo sviluppo armonico e musicale è un misto di riverberi europei con motivi popolari ucraini (Valzer, atto II, Polonaise atto III, ma anche danze scozzesi ancora atto III), quella intrusione dei ritmi etnici locali che stavano divenendo di moda nella musica europea attraverso i poemi sinfonici, da Sibelius a Respighi con la Trilogia romana, in particolare a Smetana con La mia patria (1873-1879) con ben sei poemi sinfonici. Sì, c’era dietro il romanzo in versi di Aleksandr Sergeevič Puškin, la storia del giovane ozioso dandy, oppresso dalla noia esistenziale, completato quasi cinquant’anni prima nel 1833, 389 stanze, ciascuna delle quali costituita da quattordici tetrametri giambici, il metro degli stasimi della tragedia ateniese, in altro ambiente esistenziale, quello dei duelli, proprio quello con pistola che avrebbe troncata la vita a Puškin. In effetti il libretto era stato elaborato dallo stesso musicista con la collaborazione del fratello Modest e di Konstantin Stepanovič. Sarebbe interessante operare un’analisi parallela della vicenda nei due testi già per se stessi assai dissimili, un’opera lirica, pur essa anomala e un’opera narrativa trascritta in versi, detta già per Omero poema narrativo o didascalico. Tutto si sviluppa in questo clima di ambiguità. Ispirazione un amore rifiutato nella solitudine della provincia, il giardino della residenza di campagna di Larina, dalla Camera da letto al Salone da ballo alle rive di un ruscello boscoso, di mattina presto, poi inspiegabilmente riacceso, dopo anni nel Salone delle feste di un palazzo a San Pietroburgo e della raffinatezza alla francese, siamo nello sconvolgimento delle norme tradizionali, per dire quelli di Anna Karenina di Lev Tolstoj, pubblicato in rivista e uscito nel 1877, capolavoro del realismo russo con il travolgente tradimento in ambiente aristocratico, ad inizio la provocazione, secondo l’autore, mentre era sdraiato sul divano, di un «nudo gomito femminile di un elegante braccio aristocratico»; «un frivolo racconto delle vicende dell’alta società moscovita», secondo Fëdor Dostoevskij «in quanto opera d’arte è la perfezione… e niente della letteratura europea della nostra epoca può esserle paragonato», come per Vladimir Nabokov. Qui il tutto si conclude nel salotto della dimora del principe Gremin, nel semplice rimpianto alla lettura della lettera e di Onegin in ginocchio davanti al rifiuto definitivo. Altri tragici, drammatici finali ebbero tante opere italiane davanti ad un rifiuto così fermo e risoluto. Eppure questa dovette essere la conclusione immaginata dall’autore alla risoluzione del suo matrimonio, come qualcuno ipotizza, considerando quasi una farsa la crisi nervosa dell’autore, ancora per l’occhio della gente, in quella società conformista della grande metropoli alla veneziana. Ma quanto aveva pesato sull’elaborazione della vicenda la sua soggettiva concezione della vita in cui essa era dominata dall’incombente greca Tyche, quel destino al quale aveva nel 1868 dedicato un poema sinfonico, Fatum. L’ambiguità era pesata e aveva governato la sua vita, la stessa sua morte è ancora discussa e rimane nel dubbio di un fatale contagio di colera o addirittura su un probabile oscuro suicidio. Quanto aveva contribuito nella sua rinnegata condizione di omosessuale, coperta con il finto matrimonio, di convenienza e per “copertura sociale” del 1877 con l’ex-allieva che egli neppure ricordava, Antonina Ivanovna Miljukova, nata nel 1849, che gli scrisse una lettera-dichiarazione d’amore. Il matrimonio fu il metodo usato allora e in tempi recenti di omofobia per stornare l’accusa di omosessualità, così pure il fratello omosessuale Modest, al quale scrisse nel 1876 che pensava al matrimonio più che altro per i suoi familiari che per se stesso, in quanto era amareggiato dai pettegolezzi che la collettività poteva fare. «La nostalgia di mia madre…che amavo di un amore morboso ed appassionato», ma soprattutto l’ambigua relazione con la baronessa Nadežda Filaretovna von Meck, più vecchia di nove anni, certamente splendida mecenate, ma cosa altro, soggetto di indagine critico biografica, ma anche psicoanalitica. Confidente con una fitta corrispondenza di milleduecentotré lettere, sfuggendo alla vista reciproca, pur nella grafomania dell’autore fino a 18 lettere al giorno. Era lo stretto nesso tra realtà ed arte, tra vita e ideale e fu un matrimonio fulmineo, anche contro il parere di amici e parenti: «Ho deciso di non sfuggire al mio destino e che il mio incontro con questa ragazza è stato in qualche modo voluto dal destino» (lettera alla von Meck).

Lo spartito dell’opera Evgenij Onegin, 1877

Secondo Alexander Poznansky, ripreso da Ferruccio Tammaro «…il rapporto fra vicende compositive e vicende biografiche potrebbe essere visto anche in senso inverso: sarebbe stata la relazione con la Antonina ad avvicinare Čajkovskij all’Onegin […] e non il contrario». Le nozze furono rovinose ed ebbero un impatto devastante sulla sua psiche tanto da fargli scrivere: «Dal punto di vista fisico, mi è diventata assolutamente ripugnante [corsivo]» e: «Avrei potuto strozzarla». Fu un tentativo di suicidio indiretto per questa repulsione il suo scivolamento nella Moscova, certo fu il grave esaurimento nervoso; sostenuto dall’aiuto dei familiari, amici e dalla von Meck, proprio per l’antecedente gelosia felice di questa débâcle coniugale. L’opera nell’allestimento del Theater Magdeburg / Opéra de Lorraine è stata diretta con il suo piglio irruente ed esaltante da Omer Meir Wellber, guidato dal regista Julien Chavaz, le scene di Amber Vandenhoeck sono apparse alquanto schematiche, delle strutture posticce e fuori posto, oggetti fuori dal contesto lì posate per caso, rese più isolate talvolta dallo sfondo del lenzuolo bianco, così i costumi di Sanne Oostervink troppo comuni e banali, senza una particolare connotazione. La maggior parte dei protagonisti tradisce nel nome le sue origini, Larina-Helene Schneiderma, Tat’jana -Carmen Giannattasio, Olga – Victoria Karkacheva, Filipievna-Margarita Nekrasova, Evgenij Onegin Artur Rucinski, Vladimir Lenskij-Saimir Pirgu, Principe Gremin-Giorgi Manoshvili. Sempre encomiabile la direzione del coro di Salvatore Punturo.

 

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