LA SICILIA DOPO IL 1861
Francesco Paolo Rivera *
Anche se di fatto il popolo siciliano partecipò all’unificazione della Sicilia nel Regno d’Italia, in realtà tentava di ripristinare uno Stato indipendente, così come aveva tentato più volte durante la sua storia. Il popolo siciliano, secondo i più attenti studiosi, si è sempre distinto dai popoli delle altre regioni italiane, forse per avere subìto la presenza di altre popolazioni aventi identità, culture e interessi diversi dalle proprie che hanno determinato nei siciliani l’abitudine a darsi regole comportamentali, spesso non scritte, che hanno creato – per dirla con Leonardo Sciascia – la “sicilitudine” un modo di sopravvivere a se stessi vista la secolare condizione di sudditanza nei confronti di tutti i popoli che si erano appropriati della Sicilia. Subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, i siciliani furono subito accusati dai piemontesi e dagli abitanti delle altre regioni settentrionali italiane, che avevano aderito all’unificazione, di essersi fatti unificare “forzatamente” … in conseguenza delle rivolte di Bronte (del 1860), di Castellammare del Golfo (del 1861) e di Palermo (del “sette e mezzo” del 1866).È bene ricordare che Mazzini era contrario all’impresa garibaldina (1), lo stesso Cavour non la condivideva (2), e Casa Savoia aveva, tutt’al più ipotizzato un “patto federativo” con il Regno borbonico, in quanto “la Sicilia era ritenuta una terra che non faceva parte della penisola”! Ma l’Inghilterra, che aveva finanziato tutta l’operazione, per i suoi interessi strategici nel Mediterraneo, e, pare anche, per gli interessi della Massoneria e delle lobby protestanti (3) del resto del mondo, convinsero Cavour e i Savoia ad effettuare il tentativo di estendere il costituendo Regno d’Italia anche al meridione d’Italia e alla Sicilia. L’unico che era convinto circa l’opportunità dell’impresa dei Mille pare fosse stato Francesco Crispi, il quale diede un contributo determinante alla riuscita dell’impresa, che sicuramente favorì gli interessi della classe dirigente siciliana in danno della chiesa e del popolo. Il 17 marzo 1861 fu proclamato il Regno d’Italia e contrariamente alle promesse dei Savoia e di Garibaldi e alle aspettative di tutti coloro che vi avevano creduto, i nuovi “padroni” si guardarono bene dal toccare il latifondo, anzi le terre demaniali che avrebbero dovuto essere suddivise tra i contadini furono vendute a prezzi infinitamente bassi ai grandi proprietari. Vennero subito sciolte le formazioni militari dei garibaldini e imposto, ai giovani, la leva obbligatoria. Tutte le “poltrone del potere” delle città siciliane, furono assegnate agli “amici” più intimi di Crispi. I siciliani erano contrari alla coscrizione obbligatoria, intanto perché era una istituzione non prevista nella precedente legislazione borbonica, poi perché li obbligava all’allontanamento dalle famiglie per tempi lunghissimi (7 anni), il che comportava, specie per i contadini, l’allontanamento dalla coltivazione dei campi, che restava affidata ai membri più anziani della famiglia e quindi meno validi, e che quindi comportava la fame per le famiglie intere. Inoltre, con la leva obbligatoria, si correva il pericolo di non fare più ritorno a casa perché mandati dal “re straniero” … dal “re piemontese” … nemico della religione, del Papa e della Chiesa, a combattere in terre lontane contro nemici sconosciuti. E poi, la leva, comportava l’obbligo del giuramento di fedeltà ad un Sovrano mai visto e conosciuto, che aveva combattuto contro i Re, Ferdinando e Francischiello, (il primo, addirittura, nato a Palermo e il secondo vissuto per lungo tempo in Sicilia) con i quali – nel bene e nel male – il popolo siciliano aveva avuto un certo rapporto di pacifica convivenza. Lo storico meridionale Fabio Carcani di Montaltino (4), circa la leva obbligatoria, scrisse: “Spaventati dai gravi pericoli percorsi, strappati alla soavità degli affetti familiari, distaccati dalle loro imprese, questi poveri infelici non ebbero più pace. Un baratro terribile si schiudeva innanzi ai loro piedi – essi non seppero superarlo, credettero utile rifugiarsi nelle campagne per sottrarsi alla pubblica forza …”. Molti siciliani, pur di non sottoporsi alla coscrizione obbligatoria si diedero alla macchia, andando a ingrossare quelle formazioni clandestine che vennero definite “briganti”. Lo scrittore Giacomo Bonafede Oddo (5) sul brigantaggio scrisse “… era una rappresaglia continua contro coloro che avevano cariche sotto i Borbone o si credevano a questi affezionati. Ogni angheria, ogni sopruso, ogni dispetto che fosse fattibile, senza scrupoli, senza pudore, anzi con non celata compiacenza si faceva. S’imprigionava, si taglieggiava, si batteva come se fosse stata la cosa più naturale del mondo.” Molti autori sono concordi nel sostenere che con “i Vespri Siciliani”, nel 1282 in Sicilia ebbe inizio una tendenza ad isolarsi rispetto al resto della penisola. Benedetto Croce, nella sua opera “Storia del Regno di Napoli” sostiene che la mancata evoluzione economica e culturale, rispetto al resto della penisola, sia stata determinata dalla “signoria baronale”; secondo Vittorio Emanuele Orlando, fu quella specie di isolazionismo (o movimento nazionalista siciliano, come venne anche definito) che mantenne in vita per merito dei gabelloti e dei soprastanti che sostituivano, nelle zone agricole, i proprietari terrieri, i quali preferivano abitare in città e, per lo più, si interessavano di politica. Durante l’occupazione napoleonica, in Italia non si pensò mai di occupare la Sicilia, considerata evidentemente il confine all’espansione francese. Nel 1812, la Sicilia, sotto la dominazione borbonica, si dette una costituzione moderna, liberale e borghese, che in un certo senso, fu fondamento delle altre costituzioni europee. Dopo il Congresso di Vienna, del 1820, Palermo insorse contro la creazione del Regno delle Due Sicilie chiedendo il ripristino del Regno di Sicilia (con la costituzione del 1812) anche se sotto la corona borbonica. Al tempo dei “Fasci dei lavoratori” i contadini, spronati dai dirigenti socialisti, sollecitarono l’assegnazione di terre da coltivare direttamente, generando moti rivoluzionari repressi dal Governo italiano (presieduto da Francesco Crispi) con morti e feriti tra la popolazione e le forze dell’ordine. Al tempo dello sbarco dei Mille, Garibaldi, autoproclamatosi, a Salemi il 14 maggio 1860, dittatore (6), il 2 giugno successivo emise un decreto in base al quale si assicurava “a tutti coloro che avevano combattuto per la patria una quota o anche due del territorio demaniale del Comune di Residenza”. Grande fu lo stupore dei siciliani quando si accorsero di essere stati presi in giro, perché la maggior parte dei Comuni non possedeva territori demaniali, anzi furono imposte la tassa sul macinato (prima annullata e poi ripristinata), la leva obbligatoria, e fu imposto che le terre comunali, che sarebbero dovute essere distribuite ai contadini, i beni di proprietà della Chiesa, il demanio borbonico, le proprietà dei nobili contrari ai Savoia, … fossero espropriate e vendute, e il ricavato di tali vendite (circa 600milioni di lire) incassato dallo Stato, venisse utilizzato dai “nuovi padroni” per rimborsare i debiti contratti da Casa Savoia, con la Banca Rothschild per spese militari delle varie guerre sostenute. Fu certamente un affare per i piemontesi, i quali toltisi i debiti, finanziarono la costruzione di strade, ferrovie e infrastrutture nel settentrione della penisola, dimenticando completamente le esigenze della Sicilia. La maggior parte di volontari, che si erano arruolati, con Garibaldi con spirito separatista (del 1820) o con spirito federalista (del 1848), resisi conto che il loro Duce non combatteva per l’indipendenza della Sicilia ma perché finanziato da un “sovrano straniero” si ribellarono contro Garibaldi, il quale fu costretto a sciogliere il suo esercito. E pensare che il Re sabaudo, nella riunione del “Consiglio Straordinario di Stato” dell’ottobre 1860 aveva promesso un governo di riparazione e di concordia “perché rimangano riconciliati i bisogni peculiari della Sicilia con quelli generali dell’unità e della prosperità della Nazione Italiana … Interessa altamente a tutta l’Italia che la sua Sicilia possa diventare un emporio universale del commercio in Europa, come fu ai tempi del Normanni.” La confisca dei beni ecclesiastici impoverì ulteriormente il popolo e accrebbe il disagio sociale, infatti la Chiesa, sopperiva con fondi propri, oltre che alla istruzione del popolo, al mantenimento della maggior parte degli istituti, sia maschili che femminili, per l’insegnamento e la istruzione superiore, e al mantenimento delle classi meno abbienti, e provvedeva a fornire il pasto ai più poveri. Furono chiusi conventi, istituti religiosi, case di riposo, ospedali, orfanotrofi, scuole di proprietà della Chiesa …, alcune furono trasformate in caserme. Tutti i dipendenti di queste strutture, religiosi o laici, si trovarono privi di lavoro e ridotti sul lastrico e per non morire di fame, andavano a ingrossare le fila di coloro che, al momento opportuno, erano disponibili alle rivolte popolari. Anche l’analfabetismo subì un notevole incremento, infatti, per esigenze di bilancio, vennero chiuse quasi tutte le scuole dei piccoli Comuni.
Questa la situazione della Sicilia, all’indomani dell’unificazione nel Regno d’Italia.
* Lions Club Milano Galleria distretto 108Ib-4
Note: 1)si disse che, quando l’impresa dei Mille era sul punto di iniziare, Mazzini si fosse augurato che fallisse, perché così si sarebbe liberato di Garibaldi, colpevole, ai suoi occhi, di aveva accettato di appoggiare la monarchia;
2)in quanto riteneva opportuno – almeno per quel tempo – di estendere il dominio dei Savoia fino a Roma, escludendo il Regno delle Due Sicilie;
3)pare che l’obbiettivo principale fosse quello di indebolire il prestigio della monarchia cattolica dei Borbone per raggiungere, quale fine ultimo. la caduta del potere temporale del Papato di Roma e la estirpazione del cattolicesimo dall’Europa;
4)nato a Trani nel 1824, combattè con Garibaldi e dal 1885 al 1889 (anno della sua morte) fu consigliere comunale a Trani;
5)(1827-1906). domenicano insegnante di dottrina e di predicazione, fu un fervente mazziniano e liberale; abbandonata la vita ecclesiastica, si dedicò al giornalismo come redattore del “Momento”, de “Il Precursore”, de “La Mente Italiana” e di “Letteratura Montanara”, scrisse, anche, romanzi storici sui moti siciliani, sulle imprese garibaldine e sul brigantaggio;
6)presumibilmente su istigazione di Francesco Crispi, cui era affidata la regia politica di tutta l’impresa garibaldina.