IFIGENIA E LE ORSE DI BRAURÒN

Carmelo Fucarino

Il 18 settembre del 413 a.C., mentre la retroguardia dell’ateniese Demostene si arrendeva con seimila uomini che sarebbero stati rinchiusi a soffrire e morire nelle Latomie, i soldati di Nicia invertirono la marcia e presso il fiume Assinaro, stremati e assetati, si gettarono nella corrente calpestandosi a vicenda: «Inoltre i Peloponnesi, scendendo contro di essi, trucidavano soprattutto quelli che si trovavo nel fiume e presto l’acqua fu infetta, ma non di meno bevevano insieme al fango in cui era mista e vi era una lotta tra di loro» (Thuc., Storie, VII 84, 5). Così si chiuse con la vittoria di Siracusa la guerra del Peloponneso. Intorno a quegli anni in patria nel teatro di Dioniso alle falde del Partenone si rappresentava la tragedia di Euripide, Ifigenia in Tauride o Ifigenia fra i Tauri (Ἰφιγένεια ἡ ἐν Ταύροις). Era un evento importante per la città, come era narrato nella tragedia da Atena stessa nella consueta forma del deus ex machina: si trattava della istituzione nel villaggio di Ale delle Brauronie: «E tal rito / istituisci. Allor che a festa il popolo / si aduni, un ferro, a riscattar la strage / tua, come vuole pietà, s’appressi / alla gola d’un uomo, e ne zampilli / sangue, sí che la Diva onore n’abbia. / E tu ministra, Ifigenía, sarai / presso le sante braüronie scale / di questa Diva; e lí sarai sepolta / dopo la morte; e fregio alla tua tomba, / avrai di pepli, dei tessuti belli / che lasceranno quante donne rendano / l’alma nei parti.» (trad. Romagnoli, vv. 1458-1467).

Siamo nella forma esplicita della eziologia, la storicizzazione della mitografia che aveva improntato la tragedia greca a cominciare dalla impropriamente detta Orestea di Eschilo, unica trilogia a noi pervenuta con l’Agamennone, le Coefore e le Eumenidi (perduto il dramma satiresco Proteo) e vincitrice delle Grandi Dionisie del 458 a.C., ove era sacralizzato attraverso il mito del ciclo troiano l’istituzione dell’Areopago, il tribunale ateniese. Con questa tragedia siamo sempre nel filone di questo ciclo, il più celebre a partire dai poemi omerici, più devastato ed abusato da tutta la tragedia greca, per dire la speciale forma di teatro rituale prettamente ed esclusivamente ateniese (diverso il caso della commedia con Epicarmo di Siracusa), quella tetralogia (tre tragedie e l’appendice del dramma satiresco) che secondo Aristotele avrebbe a che fare con il dionisiaco ditirambo e quindi con il “canto del capro” o “per il capro”, i satiri di Dioniso. A parte l’epica di Agamennone che va ad aiutare il fratello alla riconquista della sposa rapita, è evidente qui il coinvolgimento di tutta l’Ellade achea per qualcosa che riguardava tutta la comunità, rappresentata nel celebre catalogo delle navi. La parte che riguarda gli Atridi è fondamentale, soprattutto quella di Agamennone il cui dramma privato toccherà tutta la sua famiglia e la discendenza. Indicativa la dedica Tesoro di Atreo, detto anche Tomba di Agamennone, allo stupendo tholos nei pressi della Rocca di Micene. Del suo tragico nostos si era occupata in diversi punti anche l’Odissea, l’epos di Odisseo e del suo travagliato ritorno, a cominciare dalle notizie apprese a Sparta da Telemaco. Vi si narra che all’arrivo si gettò nella patria terra e la baciò, mentre lacrime scendevano sul volto, mentre in vedetta la spia di Egisto gli annunzia il suo arrivo con la conseguente empia frode: «E accolto a mensa lo scannò, qual toro, / Cui scende su la testa innanzi al pieno / Presepe suo l’inaspettata scure.» (Od. IV, 669-671, trad. Pindemonte; cf. pure III 234s., 247-252; IV 91s., XI 409-420, spettro in Ade e modalità dell’omicidio orchestrato dalla sposa). In linea con queste concomitanze con il mito la contemporanea rappresentazione dell’Agamennone e nella riduzione in unica serata delle Coefore ed Eumenidi, nel grande impatto che continua sempre ad avere questo ciclo epico. Si ricordi che nell’inaugurazione siracusana del 1914, su iniziativa del conte Mario Tommaso Gargallo, fondatore dell’INDA, fu l’Agamennone, interpretato da Gualtiero Tumiati e ripreso per dieci volte. Qui tornava l’immagine zoomorfica del toro nella profezia di Cassandra: «Ahimè, ahi! Vedi, vedi! / Tieni, tieni lontana dal toro la giovenca! / L’afferra al peplo con le negre corna,/ a tradimento lo colpisce: piomba / nel bagno molle… Di feral lavacro / insidïoso a te la storia narro» (Ag. 1125-29, trad. Romagnoli). Si tratta dell’uccisione del toro nella rappresentazione achea della “signora delle belve” che uccide il paredro. Poi la vendetta di Oreste con il matricidio e la punizione delle Erinni, le vendicatrici femminili, finché il giudizio dell’Areopago è equilibrato dalla spada di Atena.

Eppure a questo sviluppo dal matriarcato egeo al patriarcato dorico si era innestato l’altro filone troiano che riguardava la partenza della flotta, l’opposizione della dea Artemide e il diniego dei venti, il sacrificio di Ifigenia in Aulide sulle coste della Beozia, anche lei divinità achea del gruppo, tra l’inganno del matrimonio con Achille, il pianto della vergine e l’odio della madre che avrebbe giustificato l’uccisione del marito da parte di Egisto, infine la soluzione con la sostituzione della cerva. Euripide avrebbe affrontato dopo questo episodio (Ifigenìa in Àulide, Ἰφιγένεια ἡ ἐν Αὐλίδι), quando era in esilio alla corte di Archelao tra il 407-406 a.C. L’opera incompleta sarebbe stata data postuma nel 403 a. C. alle Dionisiache ad opera del figlio omonimo assieme all’Alcmeone a Corinto (oggi perduta) e alle Baccanti, con le quali avrebbe ottenuto una vittoria postuma. Questa ultima fu il divino canto del cigno, un dramma sconvolgente che non ebbe pari nella tragedia greca.  In Tauride un altro sbarco insidioso in una terra selvaggia e sconosciuta con una missione impossibile, il furto della statua di Artemide. Dopo la presentazione nel prologo tradizionale di tutta la vicenda del sacrificio e della sostituzione della cerva, Ifigenia racconta il sogno, il terremoto nella sua casa paterna e il presentimento della morte di Oreste. L’equivoco è presto sciolto con le prove indiziarie e la consueta agnizione, il riconoscimento e la programmazione dell’azione. Nulla di sconvolgente e di straordinario se si considera che in quel lasso di tempo usciva dalla mente di Euripide il dramma più sconvolgente e geniale che avrebbe indotto Friedrich Nietzsche a distinguere le forme della tragedia e la visione dell’apollineo e del dionisiaco (La nascita della tragedia, Die Geburt der Tragodie aus dem Geiste der Musik, 1872). Nulla di rivoluzionario nella regia di Jacopo Gassmann, se si vuole accettare come semplice sberleffo, innocuo ma superfluo in tempi in cui è proibita pure al Central Park di New York, la nonchalance di quella sigaretta fumante fra le dita. Anche se in altro versante teatrale più complessivo e decisionale, nulla da demeritare rispetto al divo padre che ha calcato queste scene e ha ammaliato con la sua voce cadenzata, perentoria e melodrammatica. Erano altri mitici tempi con scelte eclatanti o forse gli anni memorabili e nostalgici dei mostri del teatro. Vittorio Gassmann fu qui allora nel 1954 per il XIII Ciclo degli spettacoli classici Prometeo incatenato e scioccò nel 1960 nella magica Orestiade con regia e traduzione del PPP nazionale che qui voglio ricordare nel suo Centenario con estremo amore e rimpianto per la sua stupida scomparsa quella notte all’Idroscalo (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975; cf. https://lavocedinewyork.com/news/2022/03/04/pier-paolo-pasolini-saggista-inesauribile-regista-geniale-poeta-di-unepoca/). Accettabili interpretazioni e realizzazioni nella linea tradizionale con normali costumi, sempre della sartoria dell’INDA e la dignitosa recitazione di Anna Della Rosa-Ifigenia, Ivan Alovisio-Oreste, Massimo Nicolini-Pilade, Alessio Esposito-Bovaro e Rosario Tedesco-Messaggero. Un nome di spicco Stefano Santospago, il magnifico e ingombrante Toante, forse l’ultimo di quei mostri ricordati, che ha lavorato con i maggiori registi e teatri italiani a partire dalla metà degli anni ’70, un attore habitué di questa scena con ben dieci presenze dal “Prometeo” e “Le Rane” con la regia di Luca Ronconi, “Orestiade”, regia di Pietro Carriglio, “Alcesti” con regia di Cesare Lievi, “Edipo a Colono” con regia di Jannis Kokkos, “Orestea, diretto da Davide Livermore, “Baccanti” regia della Fura dels Baus, “Le Nuvole” diretto da Antonio Calenda, e questa “Ifigenia in Tauride”. Questa scorsa alle sue partecipazioni ci è servita anche per ricordare lo spessore dei protagonisti di altri tempi. Oltre a lui l’habitué rinomata di quest’anno è Maddalena Crippa (Medea 2004, Clitennestra 2015, Ecuba 2018). Scomparsi i nomi prestigiosi del teatro di prosa nazionale, se ancora ne esistono della portata di quelli che calcarono queste rocce e fecero rivivere pur in italico suono vicende create ad altri scopi a cominciare dal VI secolo a.C. Così gli interpreti, come Glauco Mauri, al quale è stato assegnata una moneta d’oro dalla Fondazione Inda, l’Eschilo d’Oro 2022, il 22 giugno prima della replica dell’Edipo Re di Sofocle (lui Edipo e messaggero in Medea nel 1972 e 1978). Ma anche gli insigni traduttori da Romagnoli a Cesareo a Bignone, Valgimigli, Quasimodo, Pasolini, Sanguinetti, Pagliaro, Bettini e Paduano, fino ai recenti testi di celebri dell’ultima ora. Il supporto digitale con il parallelepipedo scenico alla fine non stride molto e rende più terreno e comprensibile anche quel deus ex machina che non esce dalla terra o non appare in alto sul tempio, ma scorre sullo schermo come qualsiasi annunzio pubblicitario o una descrizione mitica di Piero Angela. Se si è giunti alla fantasia pervertita e ingannevole del metaverse (dalla narrativa cyberpunk di Neal Stephenson, Snow crash, 1992), la super super fake dell’antropologia, se tutto è ormai precipitato e falsificato dall’impellere del possibile o probabile, forse dall’impossibile, reso realizzabile dai beat, se si va verso il deragliamento della realtà, verso la verità costruita e allucinatoria, se ormai siamo nell’interconnessione tra realtà e universo virtuale, questa sceneggiata divina è un semplice divertissement, un piacevole incontro con una dea digitale. Ne abbiamo viste abbastanza anche in un teatro serioso come quello dell’opera dalla Scala al nostro Massimo, in cui la commistione tra le due realtà reale-mediatico facilmente può distrarre dall’empito della musica e renderla insonora davanti all’esplosione e allo sfarfallare delle immagini tridimensionali. Come se la vera protagonista di un’opera lirica, sonorità di voci e note, fosse divenuta sussidiaria ad altro. Eppure in quell’inizio di secolo ad Atene si viveva realmente quel rito iniziatico femminile del quale la tragedia sceneggiava origine e significato pur con quel tocco euripideo di misoginismo e di incredulità nei profeti. Era quello che proclamava negli stessi anni una donna del Coro della Lisistrata, “colei che scioglie gli eserciti”, la prima femminista per eccellenza, quella dello sciopero del sesso, la prima della legge del “me lo gestisco io”, proprio in margine e contro la rovinosa guerra del Peloponneso, tra emancipazione e solidarietà di genere, nelle Lenee del 411 a.C. con la voce del portentoso unico Aristofane, consapevole della potenza, ma anche dalla naturalità della libido, difficile da domare sia negli uomini, ma anche nelle donne: «A sette anni ero arrefora; poi ho preparato il grano; a dieci sono stata orsa nelle Brauronie, deponendo la veste gialla in onore di Artemide. Infine, ormai grande e bella, sono stata canefora e ho portato la collana di fichi secchi» (Aristofane, Lisistrata, vv. 641-647, a cura di Guido Paduano, Rizzoli, Milano, 1981). Nelle Arreforie in onore di Atena quattro nobili vergini tra i sette e gli undici anni intessevano un peplo bianco che offrivano alla dea, le portavano oggetti segreti e focacce di grano, sancendo verosimilmente il passaggio da bambina ad adolescente. Il successivo transito doveva essere quello delle fanciulle orsette nude di Brauròn, ove vivevano isolate e ogni cinque anni vi celebravano con una rituale processione, il kòmos, le Brauronie, la grande festa ad Artemide Brauronia, vergine cacciatrice, la Kourotrophos, “che alleva fanciulli”, la tipica potnia theròn, la “signora delle belve”, come Athena e Cibele. Le fanciulle, deposte le vesti color croco, giallo-rossiccio, simbolo di Artemide nella finzione di orse (così Ifigenia nell’Agamennone di Eschilo, v. 239, «poi, mentre versava a terra la sua veste color zafferano», guardando ciascuno dei suoi sacrificatori e implorando pietà), mostravano la nudità sacrale e sacrificavano alla dea una capra. Era il passaggio iniziatico dalla verginità al parto. In queste grandi feste di iniziazione femminile, cultuale e rituale, nelle transizioni fisiche e sociali si esprimeva lo stretto rapporto di philìa con la polis.

 

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