IL FILE ROUGE A SIRACUSA 2022

Carmelo Fucarino

Mi piace avviare questa ricognizione sulle rappresentazioni greche di SIRACUSA2O22 con questo mito che in età moderna vuol connotare la Tyche greca, quel destino che incombe sulle scelte umane, o più semplicemente quella linea che unisce situazioni distanti e li accomuna, il “filo conduttore”. Goethe nelle Affinità elettive (cap. II) lo conosce come arguto espediente tecnico marinaro: Abbiamo notizia di un ordinamento particolare della marina inglese, per cui tutto quanto il sartiame della flotta regia, dalla fune più robusta alla più tenue, è ordito in modo che vi passi a traverso un filo rosso; questo non può essere tolto senza che tutto si sfaccia, e permette così di riconoscere anche i pezzi minimi come appartenenti alla corona” (l’imperialismo inglese). In questa linea prosaica possiamo ritrovarlo nell’antitesi che è aspra contesa tra chi pretende di contestualizzare, spesso bloccare a semplice archeologia, il genere della tragedia greca, mantenendo strutture, scenografie e costumi più o meno in ipotetica mimesi con i tempi dei fatti e coloro che invece, oggi dominanti in tutto il teatro, classico, antico ed operistico, pretende di attualizzarlo attraverso ideologie e costumi odierni, l’imperante modernizzazione di narrazioni che ricreavano ideologie e stili di vita cronologicamente e topograficamente idiosincratiche. In queste serate del 57° ciclo siracusano abbiamo verificato la sincronizzazione delle due tendenze, tra qualche costume in stile iconico classico e qualche sberleffo superfluo come il fumo della sigaretta immesso da Jacopo Gassmann e l’ardito orripilante sanguinolento nudo integrale del canadese Robert Carsen, amante del Falstaff verdiano, ribrezzevole nudità che sorprende e angoscia, ma che non esprime il fulcro dell’accecamento con la fibbia della veste di Giocasta che extra scaenam, come era prescritto per omicidi e suicidi, trova come unica soluzione l’impiccagione, quello strappo degli occhi da parte di chi non aveva saputo o voluto vedere. Arditezze rispetto alle ipotesi interpretative e scenografiche dei parallelepipedi con proiezioni digitali o la scalinata a volere alludere a un motivo di esclusiva lettura personale dell’ascesa e del baratro di Edipo, esclusa dal contesto mitico che consisteva nella ineluttabilità del destino umano, profezia ineludibile, anzi resa più lancinante dalla debole volontà umana. Quello che nell’ideazione del ciclo annuale risulta tuttavia più coinvolgente e realizza la linea realistica goethiana è la concettualizzazione delle narrazioni delle due tragedie. L’Edipo tyrannos, l’archetipo aristotelico della supposta perfezione delle tre unità, è così avviato dal sacerdote che sta supplice con i supplici davanti al tempio di Atena in risposta alla domanda del re: «Come vedi tu stesso, la città vacilla, e non riesce più a sollevare la testa dagli abissi di morte. Perisce nei boccioli che producono i frutti, perisce nelle greggi ai pascoli, nei parti delle donne. Il dio che porta il fuoco è piombato sulla città e infuria come peste orrenda» (trad. di Francesco Morosi). È la rappresentazione della peste che in realtà lo ierèys definisce loimòs echthistos, la “più terribile contaminazione” (COVID2019?). Essa è la conseguenza del tragico incesto, involontario, ma sempre contro natura. È quella profanazione della natura che è contaminata dall’incesto umano e perciò la vendetta divina, finché non sarà lavata l’empietà che rende gli uomini impuri. È la rappresentazione mitica del nostro grave peccato di avere prostituito e profanata la nostra che si vendica con la lunga ed ancora inesausta scia di morte. Si badi, è già questa l’attualizzazione in un mito tragico dell’esperienza terrificante dell’Atene assediata con la calca degli abitanti del contado dentro le mura che falcidiò la città con l’ipotesi di 75 mila morti tra il 430 e il 426 a.C. È questo l’altro file rouge che lega le due tragedie di questa stagione: la guerra. L’Oidipous tyrannos è rappresentato nel teatro di Dioniso alla base dell’Acropoli tra il 430 4 il 420 a.C., l’Ifigenia fra i Tauri tra il 414 e il 411. Siamo in un momento decisivo dell’espansionismo della democrazia ateniese, avviato con la fase archidamica dal 431 al 421 a.C., politica espansiva senza remore, come denunziata dal celebre discorso e dalla strage dei Meli e conclusa con la completa debacle di Atene. Era quella democrazia vantata e falsamente letta per secoli a capo della Lega delio-attica (la NATO di Biden?) che era andata ad invadere la dorica colonia della Sparta della diarchia monarchica (lo spregevole sanguinario Putin?). I pochi sopravvissuti di Nicia nel 413 a.C. lungo il fiume Asinaro, moriranno di stenti nelle latomie, le grandi mura di Atene saranno abbattute da Sparta che diventerà la potenza egemone nel ciclo storico che la farà sostituire da Tebe e poi dal dominio assoluto e per taluno catastrofico della Roma prima repubblicana e poi imperiale con il pretesto ciceroniano di diffondere la civiltà nel mondo, dopo l’altrettanto opinabile ecumenismo del macedone Alessandro. Tutto si compì a Siracusa, che nulla aveva a che invidiare con Atene, la città mondiale di Occidente visitata due volte da Platone per la realizzazione della sua utopia politica, la città che vide le Atnee di Eschilo, profugo e ucciso da una tartaruga lanciata dal cielo e sepolto a Gela, come recita l’epitaffio. Mentre là si compiva il destino di Atene nella madrepatria continuavano le Grandi Dionisiache con la presenza dei due grandi, il Sofocle filoathenaios e l’Euripide della sofistica, morto alla corte di Archelao nella macedone Pella, critico di sacerdoti e profeti, si dice misogino, nonostante il protagonismo di donne fin nei titoli, nonostante Alcesti, l’unica a far dono della vita («Il morto giace il vivo si dà pace.») in sostituzione del marito Admeto di Fere. Ancora questo file rouge con i nostri tempi si snoda nel mito di Ifigenia e della selvaggia Troade, l’odierno Donbass, desolato dalla guerra. Qui la morta apparente sostituita e salvata da Artemide con la cerva e il giovane matricida perseguitato dalle Erinni si ritrovano e riescono a sfuggire alla morte, inseguiti dal re Toante. Ragione del furto l’istituzione delle Brauronie di Artemide, la festa e i riti di Arkteia o delle vergini-arktoi, “orse”, in sostegno della gravidanza e del parto. Anche qui pure l’allusione a quel mare e a quella regione che fu preda di guerra dei Greci e si concluse con la distruzione di Troia, per un banale rapimento di una donna, Elena. Era la conquista di quella terra che apriva le porte dell’Oriente, oltre quelle tumultuose Simplegadi all’ingresso di quel Ponto Eusino, conteso, fino al riconoscimento del nostro Cavour nella ribalta internazionale. Tuttavia il fil rouge più traumatico e sorprendente è certamente l’eco della leggenda cinese, assai diffusa in Giappone, con il nome di Unmei no akai ito, che racconta del filo rosso legato al mignolo della mano sinistra che lo lega in modo indissolubile alla propria anima gemella. È il mito dell’orfano Wei durante la dinastia Tang (618 – 907 d.C.) che, per sfuggire alla profezia del vecchio dio dei matrimoni dal libro dell’Aldilà secondo cui avrebbe sposato l’anima gemella che aveva allora tre anni, deluso della sua indigenza, ordinò al servo di ucciderla. Vedi caso egli la colpisce in mezzo agli occhi, ma ella non muore. Dopo quattordici anni lei con la cicatrice in fronte sarebbe stata la sua sposa, scoperta ora come la figlia del governatore di Shangzhou (Tao Tao Liu Sanders,  Dei, Draghi e Eroi della Mitologia Cinese). Ancora nello stesso mito, quasi un’eco mediterranea del giovane che per sfuggire alla profezia fa uccidere la bambina a lui destinata. È il filo solido e lunghissimo che mai si spezzerà, quell’arcano nodo di tutte le contraddizioni umane, l’assoluta impossibilità di dominare e guidare il corso imprevedibile della vita. Con l’odierna drammatica soluzione del “suicidio assistito”, che pretende di porre delle mete precise e volontarie ad un corso che è stato avviato al di fuori della nostra volontà. Potrei nel mondo greco ricordare il mito del filo di Arianna che la unisce a Teseo che ben presto l’abbandona sull’isola di Nasso o alle fantasiose letture che diede Freud dall’interpretazione dei sogni di radice platonica, ai complessi mitologici, i più celebri quello di Edipo o di Elettra, il medico fondatore della psicoanalisi che nel magma di miti classici è l’intruso con le sue presunte scientifiche elucubrazioni, qui, “l’inconscio” che unisce l’intero percorso psicologico di un individuo. Eppure qualcuno ha pensato al sacramento della confessione cattolica come forma di transfert psicoanalitico. Da Jung fino a Lacan fino alle ultime teorizzazioni sull’arcano dell’inconscio.

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