IL RIDICOLO DELLA SKOLA
O la sua mercificazione in un capitalismo invasivo che ha fatto l’uomo soggetto di consumo
Carmelo Fucarino
Da un po’ di anni sono uscito dalla Scuola, quella ancora della riforma Giolitti, con velleitarie intercorrenti riforme di facciata che nulla hanno toccato delle strutture, nonostante le roboanti parolone. I gradi o specializzazioni sono rimasti identici, pur nell’assembramento in un unico edificio. Tutto l’altro di contorno è stato solo una colorazione all’edificio. Da anni mi giungono i lai del degrado della scuola, ma so per esperienza che ogni generazione che vi ho vissuto, da quella diretta di alunno a quella di didatta in ordini e specializzazioni diversi, ha avuto sempre da recriminare ed accusare qualcuno. Quando per trent’anni insegnai latino e greco percepii un certo calo e come avveniva lo attribuii ai precedenti insegnanti. La scuola media unica ed obbligatoria ebbe i suoi meriti di globale acculturazione, ma l’offesa dell’imposizione di una improbabile lingua inventata su base televisiva. In genere comunque i contenuti, nonostante la massificazione imposta anche dai renitenti radicali, con la ricerca dei carabinieri dei trasgressori per evasione scolastica, qualche traccia la lasciarono. Oggi questo sconcerto nella classe docente è diventato così assordante che ho voluto fare un giro di orizzonte. Il primo impatto stordente è stata la ricerca del Ministero ed ebbi la percezione di quello che era successo: il ministero che si occupa di didattica e di ricerca si chiama MIUR. Ecco l’arcana sigla che gli odierni colleghi mi sbattevano in faccia e la scambiavo per un istituto di ricerche statistiche. MIUR. È il costume diffuso ormai ed imperante di origine statunitense delle sigle. Ma questo suono per se stesso mi rimbombava nelle orecchie come un miagolio deformato. Non si ha più il coraggio di dire Ministero dell’Istruzione, già diverso dai miei tempi quando era Ministero della Pubblica Istruzione. È chiaro che “pubblico” è compromettente in una società di capitalismo privatizzato e votato al perenne incremento degli indici di consumo. Il privato è bello, ma in questo caso si è equivocato sulla distinzione tra “pubblico” e “statale”. Cosa mi ha smosso e spinto ad intervenire? Un fatto per sé stesso di nessun valore didattico, ma spacciato come la panacea della risoluzione del rapporto insegnante-alunno e come riqualificazione dell’insegnante che attraverso le pagelle dei suoi alunni “ignoranti” della materia e della metodologia può migliorare e calibrare la sua didassi e se così ottiene il gradimento di coloro che non sanno e vanno per imparare avrà un piccolo premio in euro, diciamo simbolico, le gratificazioni di questo genere si chiamano customer satisfaction. È un sistema ormai imperante e scientificamente analizzato e imposto nell’industria di consumo: essa quantifica la percezione del cliente che il sistema di offerta dell’azienda ha raggiunto e superato le sue aspettative, relative a costi e benefici che sono rilevanti ai fini dell’acquisto e della fruizione di tale sistema di offerta. Si crea pertanto un sistema efficace a soddisfare le loro richieste. Ne consegue la customer loyalty, gli effetti positivi per l’azienda, il riacquisto o l’aumento degli acquisti anche ad un prezzo più alto e con minori sconti da una clientela fidelizzata con un premium price o con un semplice passaparola. Ne so qualcosa di qualche supermercato e della costumer loyalty delle clienti che preferiscono comprare a prezzo esoso lo stesso prodotto che nel comune mercato costa la metà. Talvolta si servono di questionari, i cosiddetti Services Quality. In pratica nell’ingenua metodologia moderna, geniale ed innovativa?, della didassi, se un prof ottiene un alto quoziente di sì nella pagella prefabbricata dai prof e compilata dai loro alunni avrà duecento euro. Chi ha proposto una tale “sperimentazione” (pare che sia partita da una scuola friulana, ma molte se ne attribuiranno l’eccelso onore) non ha trovato né una sconfessione né una propria sperimentazione da parte del criptico MIUR. D’altronde un simile progetto soddisfa l’indirizzo culturale e la professione del ministro Patrizio Bianchi, cattedratico di economia applicata con un titolo onorifico della cattedra UNECO di “Educazione, Crescita ed Eguaglianza” e della School of Economics and Political Sciences di Londra. Sono curioso di coniugare questi termini per la formazione culturale ed umana di un cittadino medio in una nostra scuola media o superiore. D’altronde il miracoloso Draghi, l’economista di tutte le cariche importanti chi poteva scegliere per ministro dell’istruzione? Logico un amico di professione economista. Fino a qualche anno fa un altro esimio ministro ebbe la dabbenaggine di affermare che la cultura non dà da mangiare. Certo da cattedratico i rapporti con i discepoli sono diversi da quelli di un modesto prof di media o secondo grado. Così anche ignoti sono i rapporti ai dirigenti ministeriali, provenienti da assegnazioni politiche e che poco sanno di istruzione e formazione del cittadino che li dovrà curare e guarire da medico e da uomo. Andiamo perciò per ordine. Questi signori non sanno che al di là delle pagelle, ancor più gravi se stilate in forma anonima (non dicono nulla i ricatti e le minacce delle lettere anonime, alle quali non danno credito né polizia né giudici) sempre e da sempre il prof ha subito il giudizio degli alunni. A parte i pregiudizi dei loro genitori nella scelta dell’indirizzo, istituti e classi per informazioni di salotto ed esperienze altrui (il consumistico passaparola dei negozi di grido), a parte le scelte fatte per esaudire il loro orgoglio, nonostante i giudizi degli insegnanti, da sempre io ho subito il giudizio dei miei carissimi alunni. Oggi che siamo coetanei con alcuni e pensionati anche qualcuno il ricordo di quelle bravate per mettermi ko. Si ricorda quando nell’intervallo a lei prof di latino e greco le abbiamo chiesto del Maestro e Margherita e lei ce ne ha parlato per un’ora? O fatto terrificante di nobili alunni che chiedevano all’insegnante di arte di parlare di un Pinco Pallino pittore e lei abboccava decantando? Questi erano gli esami quotidiani, per anni e in tutte le forme, dalla perfetta conoscenza della materia, al modo di porgerla, su tutto quella empatia, quell’appeal (le scarpe da tennis o i capelli arruffati), quello che oggi nelle riunioni con i miei carissimi alunni ritorna come nostalgica reciproca rêverie. Sì, si davano i voti da parte degli alunni e se non ottenevi la loro stima e fiducia erano guai. So di colleghi che sono stati pregati dal preside a cambiare mestiere. I Presidi. Allora a fine anno davano un giudizio analitico e uno sintetico. Mi spiegò un preside che per la mia figura di ragazzino temeva che quei cagnacci della terza mi azzannassero, ma anche che l’ottimo era relativo e poteva essere annacquato da un “ma” nel giudizio analitico. A parte la semplice e comoda obiezione che nessuno penserebbe di affidarsi ad un chirurgo dopo averlo sottoposto ad un questionario, a parte che uno che non sa, è ignorante di greco o di trigonometria e va a scuola per apprendere, non può giudicare se il prof sa o non sa, tutto questo, ammesso che sia possibile, quale effetto avrà praticamente?. Se il prof positivo sarà premiato con duecento euro, il prof che non riscuote, possiamo dirlo, la simpatia, perché burbero e di manica stretta, che propende per bocciare se il baldo giovane non ha raggiunto dei traguardi, per qualità intellettive (non scandalizzatevi, non mi riferisco all’IQ, l’Intelligence Quotiens riconosciuto in USA anche per le assunzioni, né al caso Lombroso che moltissimi italiani ammirarono) o perché costretto a forza ad andare a scuola, questo prof cosa otterrà? La multa corrispondente di duecento euro? O il licenziamento dopo che ha superato con metodo tecnico-scientifico esame di abilitazione e concorso? Già dimenticavo che l’inveterato metodo democristiano dell’assunzione senza concorso è promosso ancora e protetto a danno di chi aspetta il lungo iter dei concorsi statali. Certifico per esperienza diretta questo scavalcamento. E allora? Chi darà la pagella a chi? E non c’è il rischio, da quello che sento, la certezza, che questo metodo abbia ribaltato i termini del giudizio e che l’insegnante subisca il ricatto o lo tema e quindi promuova tutti. Che ci mette? E la cosa più semplice, anche se ad oltraggio di quelli che valgono. Evita il rischio di essere giudicato come incapace di insegnare da presidi che vivono di indici statistici, anche ai pinocchi di legno, che non sanno o non vogliono sentire. Sia chiaro che la Scuola è sempre un’imposizione, che la cultura soggetta ad un interrogatorio e ad un voto, non avrà la ricchezza fondante della libera scelta, che è una forzatura regimentata dallo Stato a cominciare da fondatore della scuola di stato, Vespasiano, quello dei gabinetti pubblici, poi dal padrone che un tempo sceglieva attraverso i voti. Allora. Ora non più, ma attraverso sue indagini, non essendo più credibili i voti. Questa scuola ha avuto un solo pregio, l’offerta di un metodo di ricerca e di acquisizione, il grande difficile compito di creare le basi della formazione dell’UOMO, perché «Non v’accorgete voi che noi siam vermi/ nati a formar l’angelica farfalla« (Dante, Purgatorio, canto X). Forse sono stato troppo ambizioso, ma a questo ho mirato al di là dei voti. Tutto l’altro era semplice strumento per cavar fuori l’uomo del futuro. E vi assicuro, sono stato giudicato, ma senza minacce anonime.