BANCHETTI RINASCIMENTALI
Echi classici e originali innovazioni. Le fonti documentarie
Giacomo Dugo*- Carlotta Crescenti*
A chi voglia comprendere quali pietanze o, per meglio dire, quali continui servizi di portate fossero la parte costituente di un interminabile e sfarzoso banchetto nel Rinascimento, vengono in soccorso due fonti, in particolare: due trattati gastronomici, il cui principale pregio consiste nel non essere solamente mere elencazioni di ingredienti e ricette – seppur non si possa negare l’utilità inestimabile di tali informazioni per gli storici dell’alimentazione -, ma anche documenti di importanza quasi archivistica. Ci riferiamo al De honesta voluptate et valetudine di Bartolomeo Scappi (1421-1481) e Banchetti, composizioni di vivande e apparecchio generale di Cristoforo da Messisbugo (XV-XVI sec.). Infatti, all’interno di tali testi, oltre a centinaia di ricette per la preparazione delle pietanze più disparate, sono presenti, altresì, dei resoconti di banchetti effettivamente avvenuti, a cui parteciparono personaggi di spicco della società rinascimentale, con importanti notazioni relative non solo all’organizzazione concreta del pranzo o della cena in oggetto, ma anche ai menù adottati. All’interno della monumentale opera di Bartolomeo Scappi, che possiamo considerare un’opera di cucina rinascimentale dalla caratura enciclopedica, troviamo un numero sterminato di ricette di piatti che erano presenti durante i banchetti nuziali più sfarzosi. Apprendiamo, così, quali fossero le tecniche per cucinare piedi di bue, cervelle di vitella, fricassee (cioè, spezzatini) di lepri, ghiri, grasso d’anatra e numerose specie avicole – che già, durante i banchetti romani, avevano deliziato i palati più sofisticati – come tortore, tordi, merli, allodole, pettirossi e beccafichi. Le preparazioni a base di pesce sono protagoniste di uno dei capitoli più ricchi del trattato e, così, abbiamo, tra le altre: stufato di storione con vino bianco, teste di tonno, spigolo, cefalo, triglia, sgombro, sarda di mare e di lago, alice, pesce ignudo (cioè, Caepola tenia Linn.: il bianchetto), rombo, pesce San Pietro, lampreda, calamari, seppie, polpo, palombo, scorfano, gamberetti e ricci di mare, anguille, bottarga di uova di spigolo et cetera… Tra i colossali banchetti descritti dal gastronomo, prendiamo, ad esempio, il cosiddetto “Pranzo del XV aprile”. L’evento descritto da Scappi è un esempio di ricchissimo menu rinascimentale. Tale lauto banchetto fu introdotto da un “primo servizio di credenza”, un delicato entrée a base di ricotte fresche zuccherate e acqua di rose, biscotti romaneschi, mortadelle, prosciutto tagliato a fette e soffritto con salvia, mostaccioli napoletani, fragole con lo zucchero, pasticci di vitella mongana (cioè, la vitella da latte), olive di Genova, uva fresca. I commensali, poi, furono tenuti ad accogliere il primo servizio di cucina, che consisteva in frittura d’animelle, crostate d’occhi e d’orecchie di capretto, frittelle con fior di sambuco, pollastrelli serviti allo spiedo con limoncelli tagliati, conigli arrostiti. Seguirono altri due servizi: piccioni, mezzi capretti, biancomangiare, gelo di piedi di capretto e molto altro. Pare che il pranzo si concluse, infine, in modo discretamente contenuto, con una ‘torta d’herba alla bolognese’, delle mandorline fresche, del cacio romagnolo, delle ciambellette e del finocchio. In fondo, non si trattò, probabilmente, di uno dei pranzi più estremi che il Rinascimento conobbe. In un’opera cinquecentesca di stampo cronachistico, scritta da Cherubino Ghirardacci, troviamo la descrizione scrupolosa di un banchetto nuziale dalla caratura colossale, cioè quello che, tenutosi nel 1487, ebbe come protagonisti Lucrezia, figlia del duca Ercole d’Este di Ferrara, e Annibale II Bentivoglio. Così, Ghirardacci, come riporta Massimo Montanari nel suo Nuovo Convivio (1991), enuclea una lista di pietanze che, per amore di economia testuale, non sarebbe possibile riportare nella sua interezza. Tra le pietanze che ci sembrano meritevoli di una menzione fulminea, troviamo: “cialdoni et malvasia dolce et garba et moscatelli in vasi d’argento”, piccioni arrostiti, fegatelli, pernici, un immancabile “castello di zuccaro con li merli e torri molto artificiosamente composto, pieno di uccelli vivi”. Uccelli che, stando al cronachista, si librarono per la sala, non appena la sofisticata composizione scultorea fu posta a tavola. Un’analoga fine fece, anche, il “castello di conigli”, in quanto gli animali proruppero improvvisamente per la sala “correndo chi qua et là con risa et piacere de’ convitati”. Frequenti erano, dunque, le costruzioni di elaborate e raffinate sculture o, addirittura, di gruppi scultorei, che rappresentavano temi mitologici, come quello ordinato da Ercole II d’Este, che rappresentava l’omonimo semidio intento nella lotta contro il leone Nemeo, nella prima delle sue proverbiali dodici fatiche.
Passando all’opera di Cristoforo da Messisbugo, troviamo ricette per la preparazione di altre pietanze succulente, come: zampette di vitello in crespina, mortadelle di figato, capponi e fagiani in potaccio, “pollastriagliata biancha, morella, verde e gialla’, riso turchesco con latte di mandorle ambrosine monde (cioè, sgusciate), cappesante di San Giacomo, torta bianca da quaresima, torta di code di gamberi, lasagnvolle, “ovvero tagliatelle tirate”, maccheroni alla napoletana… All’interno dell’opera, sono presenti, altresì, numerose descrizioni di banchetti organizzati dallo stesso Cristoforo, per conto di alcune personalità note, presso la corte di Ferrara. Uno di questi fu realizzato da Cristoforo nella sua stessa casa, il giorno di Carnevale, il 14 febbraio 1548. Innanzitutto, furono serviti, come modesta introduzione al pasto, una salvietta e un coltello, un pane intorto e una “crescentina di butiero”, zuccharo e tuorli d’uova. Il menù prevedeva tre servizi di vivande, a base di “ritorteli alla melanese”, maccheroni alla napoletana cotti nel latte, suppe di brogne (cioè, musi di maiale), gambari rossi, pastatelle d’uva passa, datteri e pinoli, tortelli alla lombarda, pere guaste, frittati di caviaro, minestra di luzzo, gelatia chiara, uva di più sorti, persiche, pere, formaggio, olive.Per concludere, si potrebbe dire che il banchetto rinascimentale – fosse questo nuziale, festivo, encomiastico o d’occasione – presentava generalmente delle caratteristiche che lo accostavano alla sofisticatezza dei più sfarzosi banchetti dell’antichità classica. Vi era una struttura, più o meno, fissa, articolata in diversi servizi, che erano costituiti, a loro volta, da numerosissime portate. Di certo, non era previsto – né consigliabile – che ciascun commensale assaggiasse una porzione di ogni singola portata: lo scopo era creare meraviglia negli ospiti, affermando, anche attraverso la qualità del desco, il potere e la ricchezza del patrocinatore o dello sposo celebrato. Tale meraviglia doveva derivare, quindi, dall’estrema varietà e ricercatezza delle pietanze, da magnificenti spettacoli e da balli, da imponenti sculture realizzate con zucchero e marzapane, dalla perizia del personale di cucina e di sala.
* Lions Club Messina Tyrrhenum