TOSCA O LO STUPRO MANCATO
Carmelo Fucarino
Ph. Fr. Lannino
La Tosca, data in prima il 29 aprile 2022 al Teatro Massimo di Palermo, non manca mai di sorprenderci e stupirci, almeno per quanto mi riguarda, per la genialità dell’impianto narrativo e la modernità di invenzioni musicali e orchestrazione, nonostante le tribolate peripezie della composizione e il consenso del pubblico, moderato rispetto alle aspettative, tra fanatici di Mascagni e aristocrazia nera romana, con qualche stroncatura della critica, come le riserve del musicologo Julian Budden (Puccini, Roma, Carocci Editore, 2005): «Tosca è un’opera d’azione e in questo stanno sia la sua forza che i suoi limiti. Nessuno la proclamerebbe il capolavoro del compositore, le emozioni che provoca sono per lo più ovvie, ma come trionfo di puro teatro rimarrà ineguagliato fino alla Fanciulla del West». Eppure siamo ad un passo della sua svolta musicale e tematica modernista con la Madama Butterfly (1904) e La fanciulla del West (1910), sua prima assoluta a New York. Tosca con la sua prima al Teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900, straordinario lunedì, venne ad inaugurare il Novecento operistico a preludere Debussy e Strauss e fu un evento eccezionale: 1.800 posti sold out, tra smoking e abiti da sera, massime autorità, decorazioni floreali e champagne italiano offerto a tutti gli spettatori nel foyer, un vero successo mediatico con diverse interruzioni per frenetici applausi, un bis concesso fra i tanti richiesti, un quarto d’ora di ovazioni finali. A Palermo la tenerezza e la dolcezza di quelle celebri arie, pur nella loro drammaticità, sono state sommerse da continue ovazioni per i due protagonisti, la soprano Anna Pirozzi-Floria Tosca e il tenore Fabio Sartori-Cavaradossi, diretti dal giovane Valerio Galli, e sono state confermate da due bis eccezionali, chiesti e concessi, mai avvenuto in doppio in questi ultimi tempi. Tutto partì dalla grandiosità dell’omonimo dramma di Victorien Sardou che ebbe un clamoroso exploit il 24 novembre 1887 al Theatre de la Porte-Saint-Martin a Parigi, sminuito da Giacosa “per opera di Sarah Bernhardt”, essendo il testo poco poetico. Il dramma, dato a Milano il 1889, impressionò Ferdinando Fontana, poeta scapigliato, che contagiò l’amico Puccini, tanto da proporlo a Ricordi, ma il testo per volontà di Sardou fu assegnato ad Alberto Franchetti. Solo alla sua rinuncia, Sardou diede assenso all’assegnazione a Puccini del libretto di Luigi Illica, alla presenza di Verdi che rimpiangeva l’occasione mancata a causa della sua età. Puccini comunque era appena uscito dal successo di La bohème, con i cui lauti guadagni comprò e ristrutturò le due ville a Torre del Lago e a Chiari. L’opera, pur con la sua chiave popolare, data l’orecchiabilità della linea melodica (“romanze”, “duetti”, il maestoso Te Deum), resta una perfetta costruzione da libro “giallo” con l’impensabile finale per la collaborazione alla stesura del libretto di due eccelsi Luigi Illica e la collaborazione di Giuseppe Giacosa, la prestigiosa coppia di successo. Il tema è certo quello solito del teatro d’opera da Verdi in poi: la politica e qui la grande, Napoleone e la caduta della prima Repubblica romana il giugno del 1800, in particolare l’evasione del prigioniero politico Angelotti (basso Gabriele Sagona). Perciò si è tanto discusso della sua adesione al verismo musicale e al realismo drammatico ottocentesco che trova realizzazione nella concretezza storica, e se questa opera sia l’acme o addirittura il superamento soprattutto nel terzo atto in cui domina Scarpia, ambiguo tra l’irruenza del peccato privato e l’ossequio rigoroso della legge. Ma qui soprattutto è evidente la sintesi tra scena e fuori scena, tra elementi musicali che si realizzano nella forma visiva. Immortale antinomia “E lucean le stelle” in cui l’intensità del pathos e l’azione drammatica si sintetizzano in una unica melodia. Tuttavia sovrasta ancora l’amore, tema più caro a Puccini e qui sfrondato da altri personaggi e intrighi politici nella resa tipica della triade, lei, lui e l’altro. Tema certo interpretato nella sua efferatezza, cinismo e falsità dal barone Scarpia, qui magistralmente interpretato dal baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat, e chiuso da quel famosissimo grido, “Avanti a lui trenava tutta Roma” a chiusura di sipario. Lui che per Cavaradossi è il «Bigotto satiro che affina colle devote pratiche la foia libertina, e strumento al lascivo talento (con forza crescente) fa il confessore e il boia». Scarpia lo ripaga con la reiterata accusa di essere seguace di Voltaire: «Lui! L’amante di Tosca! Un uom sospetto! Un volterrian!». In linea con la tesi identica del sagrestano (Matteo Peirone-basso), interprete della posizione vaticana spodestata da Napoleone, che, mentre lava i pennelli borbotta un’altra celebre battuta: «Scherza coi fanti e lascia stare i santi! Ma con quei cani di volterriani nemici del santissimo governo non c’è da metter voce!…». Ed è anche il magnifico e abbagliante allestimento del Teatro Massimo, messinscena in linea con i dettami dello stesso Puccini, eseguiti dal regista argentino a noi noto Mario Pontiggia (La bohème a dicembre 2021), e il lavoro di ripresa di Francesco Zito dei modelli d’epoca per i raffinati costumi e la scenografia romana, la visione dell’incombente cupola della basilica di Sant’Andrea della Valle e la prigione di Castel Sant’Angelo e l’interno di Palazzo Farnese con il maestoso arazzo frontale e i mobili, la statua di stile Canova e l’ostensorio. E cosa dire della resa dell’orchestra, del Coro diretto da Ciro Visco e soprattutto del coro di voci bianche diretto da Salvatore Punturo. E i suoni, la cantata dalla finestra, quella del pastorello, le campane. E la vicina di posto, Anna Laganà ultranovantenne che si entusiasma al ricordo del suo violino al teatro di Catania e mi sottolinea al momento l’assolo dello “strisciare” delle viole (contralto tenore, una quinta più in basso del violino), come sonorità in senso dispregiativo. E il caro generale del posto avanti che impazzisce e si commuove al ricordo della sua presenza da bambino fra i chierichetti, un piccolo passaggio e a casa, diverso dai cori dei monelli e dei ragazzi in diversi momenti della Carmen di Bizet. Parlare della storia o dei personaggi risulterebbe banale, tanto è preclara l’opera che è ogni anno nei repertori di tutti i teatri lirici del mondo ed è stata di recente data in questo teatro, il 2 aprile 2017 con i portentosi Fiorenza Cedolin, Marcello Giordani e Sebastian Catana, realizzazione Teatro Maggio Musicale Fiorentino del 2008 diretta dallo stesso Mario Pontiggia, scenografia pure di Francesco Zito e tournée in Giappone. Ma era stata ancora presente il 16 novembre 2014, sempre con Pontiggia e Zito, direttore Daniel Oren da Parigi con il “cuore palermitano”, la cinese Hui He-Tosca, Cavaradossi -Stefano Secco e Scarpia-Alberto Mastromarino, sagrestano Fabio Previati, ancora Punturo per le voci bianche. Come dire, cavallo che vince non si cambia. Perciò nell’economia di questo intervento, dato atto del successo della serata e della perizia nella scelta di tutti gli elementi che hanno collaborato alla perfetta realizzazione, dato il meritato riconoscimento a Marco Betta che ha saputo unire un complesso così omogeneo e coordinato, voglio presentare dell’opera un tema che oggi è sempre sulle pagine della cronaca e sui media, quello che con termine settario viene etichettato come stupro.
Esprime, pensate a fine Ottocento, il diritto di possesso maschile della donna il demoniaco Scarpia nella violenza della parola e degli atti, la pura violenza dello stupro. Già teso il tranello e incastrato l’innamorato egli proclama la terribile e spudorata teoria della sua concezione dell’amore: «Per amor del suo Mario… al piacer mio s’arrenderà! Tal dei profondi amori è la profonda miseria. Ha più forte sapore la conquista violenta che il mellifluo consenso. Io di sospiri e di lattiginose albe lunari poco m’appago. Non so trarre accordi di chitarra, né oroscopo di fior, (sdegnosamente) né far l’occhio di pesce, o tubar come tortora! (s’alza, ma non s’allontana dalla tavola) Bramo. La cosa bramata perseguo, me ne sazio e via la getto, volto a nuova esca. Dio creò diverse beltà, vini diversi. Io vo’ gustar quanto più posso dell’opra divina! (beve)». E quando l’atterrita Tosca, partecipe dolente alle reiterate torture di Mario, “abbattuta, immobile” ha proposto in tono mellifluo: «Via, mia bella signora, sedete qui. Volete che cerchiamo insieme il modo di salvarlo? (si siede, accennando in pari tempo di sedere a Tosca) E allor sedete… e favelliamo… (forbisce un bicchiere col tovagliolo, quindi lo guarda a traverso la luce del candelabro) E intanto un sorso. È vin di Spagna… » con spregio ne chiede il “prezzo”, ridendo risponde: «Già. Mi dicon venal, ma a donna bella non mi vendo a prezzo di moneta, no! No! (insinuante e con intenzione) A donna bella io non mi vendo a prezzo di moneta. Se la giurata fede debbo tradir, (con intenzione) ne voglio altra mercede. Quest’ora io l’attendeva! Già mi struggea l’amor della diva!… Ma poc’anzi ti mirai qual non ti vidi mai! (eccitatissimo, si alza) Quel tuo pianto era lava ai sensi miei, e il tuo sguardo, che odio in me dardeggiava, mie brame inferociva! (si avvicina a Tosca che pure si alza sgomenta). Agil qual leopardo t’avvinghiasti all’amante. Ah! In quell’istante t’ho giurata mia!… Mia!…». Questa tragedia in cui lo stupro è fermato e messo alla pari dall’altrettanta violenza dell’omicidio è coronato dalla sconsolata considerazione sul premio alla bontà umana, dalla disperazione e dallo sconforto di una donna che fa dubitare dell’aiuto proprio di quella Maddalena rappresentata dalla pittura di Mario, quella che aveva incendiato il loro ardore tra giuramenti sul colore degli occhi e promesse di amore, lei che chiude il dramma con il volo nel vuoto e il grido «O Scarpia, avanti a Dio!!». L’aria, applaudita e bissata, «Vissi d’arte, vissi d’amore, non feci mai male ad anima viva», offre in sintesi il canone della donna ideale della catechesi cattolica del tempo, di quella Chiesa e di quello Stato che Napoleone aveva voluto cancellare e della cui falsa sconfitta tripudia in modo scalmanato e sacrilego il sagrestano con i chierichetti che fanno baccano dentro la chiesa redarguiti proprio dal cattivo. Ma era anche nel tema musicale, l’elegiaco e struggente leitmotiv, da metodo abusato nei suoi Musikdrama del Ring da Wagner (tema della maledizione, del Valhalla), espressione della sensibilità di Puccini, che dovette sentire quell’abbandono e quella disperazione, quel “Perché mi hai abbandonato” di Cristo uomo. Assieme a La Bohéme e Madama Butterfly, in Tosca il leitmotiv è qui usato come motivo della reminiscenza. In genere ritorna la stessa forma melodica, talvolta mutano ritmo, armonia e tempo. Qui rimane in una varietà di temi che così esemplifichiamo: 1. tema di Tosca nella lode degli occhi ed eccelsa in “Vissi d’arte”; 2. tema dell’amore in “Mia vita, amante inquieta” e modificato quando Mario condannato riflette, ed esplode nel ritrovamento dei due amanti che credono nella salvezza; 3. tema di Scarpia, il cattivo per antonomasia, composto di tre accordi con l’intermedio brutto e dissonante, detto del diavolo, del male, come in “Tutto ella ha osato…fa il confessore e il boia”, oppure “Un tal baccan in chiesa”, “Tosca, mi fai dimenticare Iddio” in contemporanea con il gregoriano “Te aeternum patrem”, oppure più terribile sul corpo morto di Scarpia, mentre Tosca pone le candele (cf. in YOUTUBE.com, Ep.2 I leitmotiv nella Tosca di G. Puccini).