SANGUE E FANGO
Andrea di Napoli
ph. Andrea di Napoli
Col passare degli anni mia nonna è diventata una vecchina gentile e con diversi problemi di salute, ma ancora lucida e con una memoria di ferro. Infatti, sebbene sia ormai una signora ultranovantenne, mi ha riconosciuto perfettamente, appena sono entrato nella vecchia palazzina del paese d’origine, dove abita ancora coi miei cugini. Le persone anziane generalmente raccontano storie che risalgono ai loro tempi, la nonna, invece, ha sempre preferito narrare ai suoi nipoti le vicende affrontate da suo padre durante la Grande Guerra. Per il bisnonno era stato terribilmente traumatico posare la zappa per imbracciare un moschetto e raggiungere il 19° Reggimento di Fanteria per poi venire “sepolto vivo” in una trincea scavata nel territorio del Carso, ai confini del suo Paese, ma tanto lontano dal “suo” paese. In una situazione permanentemente sospesa tra la vita e la morte, la percezione di una infinita sofferenza priva di un reale significato era concreta, dolorosamente tangibile. L’episodio che più di tutti gli altri aveva segnato la vita militare del mio antenato non fu una sanguinosa battaglia, ma una circostanza per lui addirittura più drammatica. Ogni militare, pur affondando nel fango fin quasi alla cintola e costretto a nutrirsi di una disgustosa brodaglia gelata, doveva tassativamente rispettare la consegna di sparare alle spalle di qualsiasi compagno sorpreso a tentare di allontanarsi da quell’inferno. Un giovane compaesano del bisnonno, molto portato per gli studi e fidanzato con la figlia della sarta, mentre era di guardia all’imbocco del camminamento est, tentò di fuggire via, forse illudendosi di poter tornare sano e salvo a casa o, più probabilmente, per farla finita il più in fretta possibile. Non lo uccisero al primo colpo, lo recuperarono ferito ed avvolto nel filo spinato per trascinarlo davanti al plotone d’esecuzione. Il mio bisnonno ed altri quattro fucilieri puntarono l’arma ed eseguirono l’ordine del tenente, anche se il padre della nonna ha sempre voluto credere che non fosse stato il suo colpo ad ammazzare l’amico e conterraneo. Nelle due lettere che la figlia ha conservato per tutta la vita, il mio parente descrive le notti trascorse piangendo e l’emozione che suscitavano le commoventi parole recitate in quei momenti da un altro commilitone, anche lui sopravvissuto a quello strazio e tornato vivo dal fronte della prima guerra mondiale. Me lo ha raccontato tante volte, eppure … stavolta devo proprio chiederglielo: «Nonna, come si chiamava il compagno d’armi di tuo padre, … quello che si è salvato?» «Giuseppe, mi pare. Sì, era il soldato Ungaretti Giuseppe.»
Ogni riferimento a fatti e personaggi realmente esistiti è puramente casuale.