VERGA E L’IDEALE DELL’OSTRICA

Carmelo Fucarino *

Sull’onda della Celebrazione del Centenario della morte di Giovanni Carmelo Verga di Fontanabianca (Catania, 2 settembre 1840 – Catania, 27 gennaio 1922) si affollano i ricordi della vita scolastica e di quel salto linguistico e culturale della nostra iniziazione, quando dai poemi di Omero e Virgilio, ci commosse la storia lacrimevole dell’umile Lucia e ci torturò per i tre anni l’aspra lingua, appresa nelle parafrasi e traduzioni, del Dante che quest’anno infuria su tutte le piazze come padre di Italia e della sua lingua. Eppure un posto più ampio dovrebbe godere il nostro Verga, senza il quale la nostra letteratura di consumo da Sciascia con il suo italiano alla siciliana e Camilleri con il suo siciliano all’italiana non sarebbe mai seguita. Nell’immensa scrittura verghiana e nei suoi lanci di proposte e giudizi sulla vita, quella scapigliata e bohémienne milanese dal salotto Maffei ai bar cittadini, al cocente nostalgico ricordo della sua rovente Sicilia, quell’Aci Trezza e quei campi che lo avevano reso primo universale bestseller (si dice l’enorme sold di venticinque mila volumi) con l’amore infantile tra manzoniano e foscoliano, sicuramente alla Caterina Percoto, dell’epistolario di La storia di una capinera. C’è da perdersi in quest’oceano e pertanto mi limiterò a un tema che mi pare attuale in questa società del disgusto e dei lupi, di casa nostra da quando Plauto ne definì l’uomo: lupus est homo homini (Asinaria, a. II, sc. IV, v. 495). Vi sembrerà un tema obsoleto quello che avvia la raccolta della nostalgia, Vita dei campi del 1880, enucleato nella novella Fantasticheria. Così nell’incipit mi sembra rappresentata la tragica realtà odierna: «Insomma l’ideale dell’ostrica! – direte voi. – Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi -.Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, […] questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, […] mi sembrano – forse pel quarto d’ora – cose serissime e rispettabilissime anch’esse.». È possibile che l’uomo sopravviva in una società dominata dalla Finanza e del Consumo che la rendono schiava attraverso un semplice algoritmo? Tu devi comprare, devi comprare, perché l’indice non può fermarsi, l’indice è Dio, l’indice è Vangelo. Così quello che un tempo si è definito spregevolmente “proletariato” e oggi “piccola borghesia”, per Verga i “deboli”, quelli dei suoi aridi campi, resi un deserto dall’indiscriminato e brutale disboscamento (non romano, si badi, ma più recente, da allora gli alberi sarebbero potuti ricrescere), così ancora oggi i “deboli” verghiani che, secondo lui potevano sopravvivere se fossero rimasti imbalsamati ai valori ancestrali della famiglia, al lavoro senza libertà, affinché, il “pesce vorace”, non li divorasse. E oggi? Come può questo singolo atomo governato e sottomesso a singole persone che lo tengono in pugno, come può sopravvivere alla voracità cruenta e selvaggia dei tanti “pescecani” che dominano in tutti i campi? Eppure ci si dovrebbe rendere edotti con un pizzico di intelligenza che tutti possiamo salvarci se riconosciamo che siamo interrelati, se cade un piccolo tassello dell’edificio complesso che ci siamo creati, tutto crolla.Ci hanno terrorizzato e fuorviati con la realtà tragica della morte solitaria e dei carri funebri, mentre altri facevano affari da indici di 6%. Ora scopriamo che tutto è stato divorato, che la piccola ostrica è rimasta isolata e travolta dalle onde, è finita, senza rendersene conto, ingannata e stordita, nella bocca del “pescecane”. Con la più orrenda paura delle tasse e della crisi energetica. Perché alla fine tutti i demagoghi, detti oggi populisti, sono proliferati con lo spauracchio delle tasse imposte dal Governo spietato padrone. Ci dicono che, rifiutato il gas russo, le petroliere USA ci salveranno. Al solito prezzo. Nella minaccia di guerra, addirittura mondiale, tra due potenze capitaliste e governate da padroni finanzieri, senza l’alibi comodo del vecchio comunismo. Così si augurava per il suo popolo dell’Ottocento siciliano in questa lettera alla dama dell’alta società, in ricordo del momento in cui passava con il treno vicino all’Aci Trezza del suo primo amore: «mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace com’è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. – E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d’interesse. Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio» (Tutte le novelle, a cura di Carla Riccardi, Mondadori, Milano, 1979, p. 136). Era la dama che aveva detto arrivando ad Aci: «Vorrei starci un mese laggiù! Noi vi ritornammo, e vi passammo non un mese, ma quarantott’ore; i terrazzani che spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci sareste rimasta un par d’anni. La mattina del terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e dell’azzurro, e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione, e gingillandovi impaziente colla catenella della vostra boccettina da odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che non spuntava mai» (p. 129).

*L.C. Palermo dei Vespri

 

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