FANTASTICI VESPRI PER LA FANTASTICA INAUGURAZIONE DEL TEATRO MASSIMO DI PALERMO

Carmelo Fucarino

Sì, dico “fantastica” in tutti i sensi. Su un episodio fantastico assurto a mito patriottico la fantasia di regista e scenografo hanno galoppato a briglie sciolte nell’immaginario palermitano, per cui una improbabile leggenda dell’anomala perquisizione del soldataccio Drouet ai Vespri del 30 marzo 1282, lunedì dell’Angelo, sul sagrato della chiesa di Santo Spirito a Palermo, si è trasformata nella metafora della Palermo di ieri, di oggi e del domani a venire. Tutto ebbe inizio da quel non programmato “mora mora” per chi avesse pronunziato sciscirì, come esalta il mito inventato da Michele Amari, (La guerra del vespro siciliano, o Un periodo delle istorie siciliane del sec. XIII, 2 voll., Parigi, Baudry, 1843, cf. su Palermo dei Vespri blog in onore del nome del Club Lions: Carmelo Fucarino: I cosiddetti Vespri: la manipolazione storica; I cosiddetti Vespri: La Chiesa dello Spirito Santo o di S. Spirito; I cosiddetti Vespri: II. L’invenzione patriottico-risorgimentale di Michele Amari – 1842, I cosiddetti Vespri : Il dipinto di Francesco Hayez-1846) ; il 25° della sua riapertura, il 30° degli assassini di Falcone e di Borsellino e di innocenti accompagnatori (dimenticati), ugualmente plateali ed esplosive, fino ad oggi avvolte nella nebbia di tutti i fatti eclatanti italiani da Portella della Ginestra all’omicidio Moro. Non gratuita quindi la sfilata delle loro immagini su azzardati stendardi processionali (solo santo canonizzato San Pino Puglisi, gli altri umani troppo umani). Sulla base di questi presupposti celebrativi accolti dal nuovo sovrintendente Marco Betta la forza innovativa di Emma Dante adusa a questi stravolgimenti strategici che sfociano nella atemporalità e nella atopia. Lei stessa ha dichiarato a proposito del connubio consensuale con l’altro “pazzo” Omer Wellber: «è un incontro esplosivo nel senso che ci sono due forze creative con una spinta molto forte per fare delle cose nuove rispetto a quelle a cui siamo abituati» (Album Rep, 20 gennaio 2022). Non meno “pazzo” per anacronia e distopia il pot-pourri scenografico che apre sulla fontana Pretoria, volgarmente “chiazza di la virgogna” per l’esibizione degli organi genitali maschili (aidoia, le latine pudenda, le “vergogne”, già in Iliade 13, 568, in Esiodo, ma anche in Platone ed Erodoto), realizzata da Francesco Camilliani a Firenze nel 1554 per Pedro Alvarez de Toledo e venduta al Senato palermitano per questione di soldi con intervento del fratello don Garcia, primo vicerè. Giunta in 644 pezzi in 69 casse il 26 maggio 1574, fu detta allora Fontana del Pretore, in atto Giovanni Villaraut, barone di Prizzi. Così la smaccata ripresa dal Padrino – Parte III dell’assassinio sulla scalinata del Massimo di un’altra donna innocente, Mary, figlia di Michael Corleone. Così gli abiti di sgargiante arlecchinata dei francesi e cupi gonnellini alla scozzese per i Siculi. Tralascerò perciò la questione filologica delle opere antiche, tra opera di pupi settecenteschi e la tarantolata S. Rosalia che ci salvò dalla peste del 1625, anche se per le tragedie di Siracusa la esternalizzazione e attualizzazione odierna non comportano gravi distonie, trattandosi di semplici traduzioni, mentre la stretta connessione di musica e parola in un’opera lirica non permette lo scambio rappresentativo tra pugnale e pistola (sul tema ancora Carmelo Fucarino su Palermo dei Vespri blog, il recente La Scala è sempre La Scala, 8 dicembre 2021). Ma diamo spazio alla fantasia e sbrigliamoci nei pazzi baccanali della riedizione presente di Les vêpres siciliennes. L’Académie Impériale de Musique aveva commissionato per l’Opéra di Parigi nel 1852 una “Grand opéra”, genere stilistico che andava sostituendo la tragédie lyrique, specialista del genere dal 1827 il berlinese Giacomo Meyerbeer, al Giuseppe Verdi (Vittorio Emanuele Re di Italia), ormai celebrità internazionale, dopo la grandiosa triade tra il 1851 e il 1853 di Rigoletto, Il trovatore e La traviata. Già Rossini aveva composto per questo genere operistico l’ultima sua opera il Guillaume Tell nel 1829, lo stesso Verdi scriverà il monumentale Don Carlos, dato il marzo 1865. Il genere aveva come soggetto uno sfondo storico, ma il tema verteva su forti contrasti passionali di impatto patetico, su improvvisi coup de théâtre, supportati da scenografie spettacolari, folle di comparse, cortei e sfilate, presenza essenziale di balletti (qui il divertissement dei quattro movimenti di danza “Le Stagioni”, dalla scena della festa, Atto III), un ampio sviluppo in cinque atti. Era la goduria della nuova b orghesia parigina emergente.Non è che il libretto avesse avuto grande interesse, già il testo di Eugène Scribe (Le duc d’Albe) non era stato gradito ad Halévy e poi a Donizetti. Eppure il 13 giugno 1855 durante l’Esposizione Universale di Parigi del 1855, questa versione di Verdi aveva ottenuto grande successo di pubblico e di stampa. Hector Berlioz ne lodò «la sontuosa varietà, la sobrietà sapiente della strumentazione, l’ampiezza … una dimensione di nobile grandezza, come una regale maestosità». Francesco Maria Piave, librettista di ben dieci sue opere, abbandonato, lo denigrò ferocemente: ”Verdi rinuncia al trono offertogli dall’Italia, per sedersi sopra una panca di Francia!”. Fece la traduzione italiana Arnaldo Fusinato, quel patriota di L’ultima ora di Venezia, «il morbo infuria,/ il pan ci manca, / sul ponte sventola / bandiera bianca». In effetti Verdi volle strafare in ossequio alle ferree norme e ai canoni del nuovo genere operistico, sia come grandiosità temporale del fluviale sviluppo dei cinque atti sia come mastodontica varietà timbrica e di narrazione sia come spreco di musica sublime. Fra le più lunghe, cinque ore, con 30 minuti della esaltante ouverture, eseguita anche come concerto, eccezionale Muti e il balletto, o il bolero Mercie  jeunes amies D’un souvenir si doux! (Atto V, scena II). E ne sortì un monstrum. A partire dal balletto inutile, ma necessario secondo i canoni, si è osservato giustamente una scrittura vocale ondivaga fino all’ineseguibile, più di La traviata che richiede tre diversi soprani. Qui Hélène inizia il primo atto da solido soprano drammatico e muore nel quinto da morbido soprano leggero, incerta tra le agili piroette del Bolero. Così Henri, che dopo le giravolte della tenorilità eroica e patetica impatta nel sottofinale, con gli acutissimi di La brise souffle au loin. L’opera prendeva spunto dal mito dei Vespri, che esaudiva anche le scelte e le attribuzioni popolari al Verdi dell’Indipendenza e dell’Unità italiana, ripescando un improbabile esempio patriottico. In effetti con la pace di Caltabellotta dell’agosto 1302 si trattò di uno scambio di dominatori: al mito degli odiati francesi si sostituì l’altrettanto asfissiante dominazione aragonese con buona pace dei feudatari siciliani e del medico Giovanni da Procida, ispiratore del gesto di Drouet, elevati dal patriota Michele Amari da Parigi ad eroi di indipendenza siciliana, mentre “l’un popolo e l’altro sul collo vi sta”, secondo il Manzoni del Coro dell’Adelchi. Stupefacente sulla linea di Amari il giudizio di Karl Marx, quello del Manifest e Das Kapital: «Le prime luci avevano appena cominciato a diffondersi sulle tenebre medievali europee, e già i Siciliani, con la forza delle armi, si erano conquistati non solo le numerose libertà municipali, ma anche i rudimenti di un governo costituzionale, quale allora non esisteva in nessun altro paese. Prima di qualsiasi altra Nazione, i Siciliani fissarono mediante votazione il reddito dei loro governi e dei loro sovrani. In tal modo il suolo siciliano è sempre stato fatale agli oppressori e agli invasori, e i Vespri Siciliani sono stati immortalati dalla Storia». (I nuovi Vespri, 31 marzo 2016). Ancor più l’opera rispecchiava il canone del genere francese nello sviluppo della storia che si creava parallela al tema politico e lo superava e relegava come sfondo di una tragica storia di amore, il pathos dei contrasti e dei ribaltamenti di posizioni, l’odio che si scioglie nella languidezza dell’amore, la vita che si eroicizza nella scelta della morte per la libertà della patria. Ancor più le antitesi passionali coinvolgono tutti i personaggi. Se l’amore come eros subisce questi sbalzi, non minore cambio di attese si verifica nel drammatico scontro generazionale tra padre e figlio ritrovato, nella collisione tra odio politico e amore filiale in un netto stacco tra positivi siciliani e negativi francesi. Ogni slancio positivo si ribalta nel precipizio negativo, nella fede e nell’abiura. Il furor di popolo che da quella piazza si espande come un incendio irrefrenabile in tutta l’isola trova pochi secondi alla fine delle tre ore e mezzo e si risolve nel simbolico sacrificio di due amanti. Eppure l’episodio era stato esaltato nella tradizione letteraria come sollevamento spontaneo dell’onore offeso, il tipico oltraggio dell’onore siciliano che fino al 1968 era assolto anche davanti all’estremo dell’uxoricidio, oggi femminicidio, solo per l’adulterio femminile, con la definizione giuridica di “delitto d’onore”. Era qui lo stigma del siciliano offeso nella violazione della sua donna, la gelosia emblematica della Cavalleria rusticana, anche se poi Otello non fu siciliano. Dell’oltraggio mitico della toccata dei seni, oggi diremmo il reato di stalking, allora una molestia, la storia qui si sviluppa su una passione amorosa a corrente alternata e su un amore paterno e uno filiale, conseguenti alla tipica agnizione o anagnorisis della commedia greca e latina. Strabiliante in questi richiami culturali alla tradizione classica latina e greca, nonostante la volontà della Grand opéra di abbandonare l’origine bastarda della tragedia greca ideata della Camerata de’ Bardi (Caccini, Peri, Rinuccini, Vincenzo Galilei ed altri) e ripresa nel melodramma (da melos, canto melico corale, e dramma) a vantaggio della moderna forma teatrale di “tragedia lirica”, quell’imeneo che concludeva quasi tutte le commedie a partire da Aristofane (Atto V, Scène I, Choeur de Chevaliers: Célébrons ensemble / l’hymen glorieux / Dont l’espoir rassemble / Deux peupes heureux,: “E del compìto imene / I sacri bronzi dato avran l’annunzio. / Il massacro incominci”. Eppure vorrei, ardentemente vorrei, in questa sarabanda tragica di una Sicilia sputtanata tra immondizia e mafia, eppure bramerei che divenisse inno di Palermo, da cantare nei tanti giorni di gloria e di fulgida bellezza della Palermo Felice, «O tu, Palermo, terra adorata, De’ miei verdi anni – riso d’amor, Alza la fronte tanto oltraggiata, Il tuo ripiglia – primier splendor! Chiesi aita a straniere nazioni, Ramingai per castella e città: Ma, insensibili ai fervidi sproni, Rispondeano con vana pietà! – Siciliani! ov’è il prisco valor? Su, sorgete a vittoria, all’onor!» (Procida, Atto II, scena I: O mon pays! Pays tant regretté L’exilé te salute après trois ans d’absence! Sur tes bords, autrefoi, j’ai reçu la naissance Je m’acquitte aujourd’hui… Voici la liberté! Et toi, Palerme, ŏ beauté qu’on outrage Et toujours chère à mes yeux enchantés!… Lève ton front courbé sous l’esclavage, Et redeviens la reine des cités!). Non so quanto possa valere e quali effetti potrà avere la rivalsa passatista della proposta annunziata in una assemblea di circa sedici organizzazioni indipendentiste di tutta la Sicilia alla Chiesa dell’Olivella di rilanciare il 30 marzo il Vespro 2022 per portare in piazza «l’orgoglio siciliano, la voglia di lottare e di difendere la nostra terra». Proposta: «Rilanciare il Vespro del 2022 assume una rilevanza, se possibile, ancora superiore: la gestione da parte dello Stato italiano della crisi sanitaria, economica e sociale provocata dalla pandemia da Covid-19 ha amplificato le differenze territoriali che da sempre costituiscono il pilastro portante su cui si regge l’Italia».

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