LA RIVOLTA DELLA GANCIA

(Francesco Paolo Rivera *)

Un episodio del Risorgimento italiano, avvenuto a Palermo, prima della spedizione dei Mille, fu quello della rivolta della Gancia.  Agli inizi dell’anno 1860, Palermo e le alture intorno alla capitale del Regno delle Due Sicilie furono scenario dei primi moti popolari che interessarono la Sicilia prima della spedizione dei Mille. I rivoltosi si erano organizzati, con la convivenza dei religiosi, ammassando armi e munizioni, presso la Chiesa e il Convento di Santa Maria di Gesù, denominato “La Gancia” (1). Sulle alture di Boccadifalco, il 3 aprile 1860 bande di rivoltosi affrontarono le truppe del nono battaglione dell’esercito borbonico, comandate dal capitano Simonetti, ma furono disperse da questi ultimi. All’alba del 4 aprile, una sessantina di rivoltosi organizzati da Francesco Riso (2), diedero inizio, suonando a stormo le campane, ad una nuova insurrezione: ma il capo della gendarmeria, Salvatore Maniscalco, informato tempestivamente da padre Michele da Sant’Antonino (uno dei frati del convento), aveva fatto appostare i soldati del 6° Reggimento di linea nei pressi del convento, soffocò la rivolta al suo nascere, ci furono venti vittime (tra cui un frate e Francesco Riso, che morì in ospedale per le ferite) e tredici rivoltosi furono arrestati e tradotti alla prigione del Castello a Mare (3). Le insurrezioni però continuarono in altre parti della Sicilia: a Carini, nello stesso giorno del 4 aprile 1860, circa 400 rivoltosi si scontrarono con le forze borboniche, ma furono sconfitti da oltre duemila soldati, comandati dai generali Cataldo e Gutemberg, i quali misero a ferro e a fuoco la città. I patrioti superstiti, si ritirarono il 20 aprile a Piana dei Greci, coordinati da Giovanni Corrao e Rosolino Pilo. L’11 maggio finalmente Garibaldi sbarcò a Marsala, e dopo la vittoria a Calatafimi, i rivoltosi concertarono un attacco contro i borboni a San Martino delle Scale, presso il Monte delle Neviere, ove cadde Rosolino Pilo (4) e quindi attaccarono Palermo, che era insorta, ove entrarono il 28 maggio con Giovanni Corrao. Ritornando ai tredici rivoltosi arrestati durante la Rivolta della Gancia, nei giorni successivi al loro arresto, in conseguenza di avvisaglie di una nuova sollevazione popolare, si decise la fucilazione, senza alcun processo, degli arrestati.  In verità il 4 aprile 1860 il comandante della piazza di Palermo, gen. Salzano De Luna e il capo della polizia Salvatore Maniscalco, comunicarono a Francesco II° delle Due Sicilie la cattura dei rivoltosi, il Re convocò il Consiglio di Guerra per determinare i provvedimenti da adottare nei confronti degli arrestati, al quale parteciparono i principi di Cassano, di Castelcicala e di Comitini e il cav. Giovanni Cassisi (ministro per gli affari siciliani). I membri del Consiglio furono tutti di accordo nel suggerire al sovrano l’applicazione della pena capitale per i rivoluzionari, ad eccezione del cav. Cassisi, il quale era quello che ben conoscendo   la situazione siciliana, fu l’unico ad affermare che “la grazia avrebbe fatto più effetto di qualunque rigore”, egli spiegò al giovane sovrano (il Re aveva, in quella data, appena 24 anni, era salito sul trono appena un anno prima,  ed era sempre stato succubo della volontà paterna, e di quella della matrigna) che un provvedimento di clemenza sarebbe stato ben accolto e avrebbe giovato all’immagine della monarchia borbonica. Onde evitare ulteriori discussioni, il sovrano alla presenza di tutti coloro che partecipavano alla riunione, dettò al suo segretario un telegramma urgente con il quale comunicava al gen. Salzano la sua decisione di avere graziato i condannati. Tuttavia, il 14 aprile successivo, i tredici reclusi nella prigione del forte di Castellammare furono fatti uscire, e, ricevuti i Sacramenti e fatti schierare (si dice in ginocchio) contro un muro di Porta San Giorgio (5), furono fucilati. Malgrado, il plotone di esecuzione abbia fatto fuoco due volte, un condannato, certo Sebastiano Camarrone (che pare abbia abitato al Capo, nel fabbricato – tutt’ora esistente – tra via S. Agostino e via Carini) rimase vivo, grazie a un crocefisso e altri oggetti di metallo che nascondeva sotto la camicia.  Il comandante del plotone di esecuzione, fatti eliminare gli oggetti di metallo che ne impedirono l’uccisione, lo finì con un colpo di pistola alla tempia, anche se i condannati a morte che sopravvivevano a due scariche di fucileria veniva, per tradizione, graziati. La gente che assistette al lugubre spettacolo fu obbligata a spegnere l’incendio provocato dai proiettili usati per l’esecuzione, ricoperti di cera. I cadaveri dei giustiziati, raccolti in quattro casse (tre cadaveri per ciascuna delle prime tre casse e quattro stipati forzatamente nella quarta cassa) furono trasportati al Cimitero dei Rotoli e tumulati in una fossa comune. La cronaca è concorde nell’asserire che il Re abbia dettato il telegramma di clemenza circa la condanna a morte dei rivoltosi, ma del testo del telegramma non è rimasta traccia negli archivi del Regno. Si sarà trattato di un ripensamento del giovane Sovrano, forse anche per l’intervento risolutivo del p.pe del Cassaro?  Forse il ripensamento tardivo è stato dettato dal convincimento che senza un rigoroso esempio quegli avvenimenti si sarebbero potuti ripetere? Chi distrusse la minuta del telegramma, il Re, il Segretario (su suo ordine) o altri e per ordine di chi?  Come mai tutti gli illustratori di quell’epoca descrissero l’avvenimento ponendo i condannati in piedi avanti al plotone di esecuzione anziché nella posizione inginocchiata?  Come mai il comandante del plotone di esecuzione, spinto (almeno così si dice) dal capo della polizia Maniscalco, abbia finito con un colpo di pistola alla testa il condannato rimasto vivo a seguito di ben due salve di fucileria? … sono tutte domande, poste dai contemporanei agli avvenimenti raccontati, alle quali nessuno ha dato mai risposte certe …!

Nei pressi del luogo dell’esecuzione (oggi piazza delle 13 Vittime) campeggia l’obelisco (opera dello scultore Salvatore Valenti (6) che ne ricorda l’avvenimento, alla base del quale sono scolpiti i nomi dei giustiziati.

* Lions Club Milano Galleria distretto 108 Ib-4

Note:

1) la Gancia, all’epoca della sua cui costruzione. verso la fine dell’anno 1400, era destinata al ricovero degli ammalati e dei bisognosi, e venne trasformata poi in Chiesa e Convento dei frati minori, ubicata in via Alloro nel Rione della Kalsa o Tribunali. La Chiesa è in stile Barocco e ospita opere di Antonello Gagini, di Pietro Novelli, di Giacomo Serpotta;

2) Patriota palermitano, idraulico (1826-1860), partecipò alla “Rivolta della Fiera Vecchia”: un gruppo di rivoltosi il 12 gennaio 1848, messa in fuga la cavalleria borbonica al comando del gen. De Majo, costituirono, attorno ai patrioti Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa un Comitato Provvisorio che formò il primo Governo del Regno di Sicilia (la cui bandiera fu il tricolore con al centro la Trinacria). Primo Ministro fu nominato Francesco Crispi, e come ministri furono nominati Ruggiero Settimo, Michele Amari, Pietro Lanza di Butera. Il nuovo parlamento siciliano dichiarò decaduti i Borboni dal trono di Sicilia e offrì la corona al Duca di Genova (secondo genito del Re di Sardegna, Ferdinando di Savoia-Genova, col nome di Alberto Amedeo I°, che però non l’accettò). L’azione fulminea della popolazione palermitana fu di esempio in tutta l’Europa: (in Francia Luigi Filippo abdicò e nacque la “quarta repubblica francese”, a Milano si fecero le “Cinque Giornate”, l’anno successivo nacque la “Repubblica Romana”), insomma “Palermo fu la prima Città Europea ad avviare la “Primavera dei Popoli”;

3) Solo due rivoltosi (Gaspare Bivona e Francesco Patti) si salvarono, nascondendosi sotto i cadaveri dei compagni caduti. Presi dalla fame, praticando un buco sulla parete esterna del transetto della chiesa, attirarono l’attenzione di alcune popolane, le quali per distrarre i soldati borbonici, inscenarono una “sciarra” tra di loro, con conseguente “tirata di capiddi”. Allargato il buco, riuscirono a far fuggire i due rivoltosi nascosti su un carro di fieno. Il sito in cui avvenne la fuga si chiamò “vicolo della Salvezza” e il buco “buca della Salvezza”, e fino a qualche tempo fa, era usanza popolare andare “a invocare la grazia“ avanti la buca della salvezza;

4) RosOlino (come denunciato alla nascita) o RosAlino (come amava farsi chiamare) Pilo (1820-1860) era di nobile famiglia (figlio del conte di Capaci e d Antonia Gioeni dei p.pi di Bologna e di Petrulla), partecipò con Giuseppe La Masa alla rivoluzione del 1849, durante la quale gli venne conferita, dal Comitato Generale della Rivoluzione la nomina di comandante delle artigliere di Palermo, partecipò ai combattimenti contro le truppe borboniche del 16 gennaio (nei pressi del Monte di Pietà) e del 4 febbraio 1860 (a Porta Maqueda); fu tra gli ispiratori del giornale “La Democrazia” e riparò a Marsiglia dopo la restaurazione del 1849. Collaborò con Carlo Pisacane e con Giovanni Corrao (o Currau) alla spedizione dei Mille e fu ucciso, colpito alla nuca, dalle truppe borboniche al Monte delle Neviere di San Martino delle Scale, sei giorni prima dell’ingresso di Garibaldi a Palermo;

5) La porta non esiste più, era ubicata all’ingresso dell’attuale via Cavour, nei pressi della chiesa di S. Giorgio dei Genovesi. Poiché i condannati avevano il capo ricoperto con un panno nero, tredici passanti ignari furono costretti ad accompagnarli al luogo dell’esecuzione;

6) È lo stesso autore del palchetto della musica in piazza Castelnuovo.

 

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