SOUVENIR

Carmelo Fucarino

Potrei dire con i Francesi: «Tout casse, tout passe, tout lasse, il n’est rien, et tout se remplace». Questo mi riempie di nostalgia alla visione di Borsalino. Intanto l’atmosfera di quegli anni che sorge allo scorrere delle immagini, edulcorate e fisse cronologicamente già allora ai miei trent’anni. È una Marsiglia diversa da quella che avrei ammirato e goduto in un giorno di fine anno e all’annunzio del nuovo in un ristorante sul porto, con la cena a base di pesce e le canzoni che accompagnavano i balli in augurio del nuovo anno. Ora a rivedere quella gradinata con le invitanti prostitute e quel gruppo baldanzoso che scende altero, la banda promotrice del cappello Borsalino, mi riporto a quegli eroi che mi avevano offerto un’icona della Francia del tempo, quella creata dalla mia fantasia. Ancora non c’era stato neppure un incontro diretto con Parigi.  Così ho rivissuta l’esperienza del bellissimo Alain Delon e dello scanzonato Jean-Paul Belmondo. E non riesco a focalizzarli oggi, l’uno 85, l’altro 87 anni. Era la leggerezza della giovinezza, quel vivere strafottente e dissacratorio di un gruppo in una città celebre per i suoi “marsigliesi”, così pittorescamente descritti da Eugène Saccomano nel suo Bandits à Marseille, ispirato dai due italo-francesi Paul Carbone e Francois Spirito. Ed erano i primi anni ’70, ancora ubriacati dalla la sbornia dell’illusoria cacciata degli idoli del ’68. Euforia e speranze subito bruciate dalla mistificazione e dall’appropriazione degli slogan da parte del potere. Già il titolo del film di Jacques Deray dichiara esplicitamente il cambio di passo in nome dell’industria: esso è un semplice espediente commerciale, una reclame sfacciata e senza connessione con trama e personaggi, la società produttrice ha semplicemente fornito agli attori i suoi tipici cappelli con una speciale licenza ufficiale. La gita con quelle ridicole macchine d’epoca a gara di velocità e di sorpassi e il bagno in quella conca sotto le rocce, o quegli interni barocchi, la sala della bisca clandestina e le prime macchinette mangiasoldi, la Lola-Catherine Rouvel contesa con una lunga epica gigantesca scazzottata conclusa con una clamorosa risata, tutto cadenzato da quel motivetto di Claude Bolling e da canzoni di sogno. Già allora il cromatismo, tra immagini vestiti e locali di una Marsiglia del 1930.

In questa atmosfera di intensa emozione, nel ritorno che turbava tutte le corde dei sentimenti, nel ritrovare quegli idoli, pressappoco della mia età, gli eroi che avevano scoperto e inventato tanti personaggi (il bel Delon del Gattopardo), la comparsa di Arnoldo Foà, quello che mi aveva insegnato a interpretare e recitare con quella voce calda e suadente, senza la teatralità e l’eccessiva enfasi melodrammatica di Gassman, il mio attore perfetto nella dizione e nella partecipazione al pathos. E come se si volesse insistere sul tema della memoria, proprio il giorno del mio compleanno ufficiale l’addio di un altro mio idolo francese, alla bella età di 93 anni, quella diva, nonostante la sua immedesimazione infervorata nella vita bohemienne degli esistenzialisti, quella sedicenne della Resistenza francese, arrestata dalla Gestapo e internata in carcere, quella dei caffè di Saint-Germain-des-Prés, quella della band di Miles Davis, amato e separato. Perché oltre a quella voce particolare che ti faceva entrare in empatia e ti scioglieva i grumi che aggrovigliavano l’anima, ti interpretava i geni del suo tempo. Ed erano le loro parole e sentimenti e pensieri che cantava, Si tu t’imagines di Raymond Queneau (musica di Joseph Kosma), La Rue des Blancs-Manteaux dell’amico per la vita Jean-Paul Sartre, o la sconvolgente Le feuilles mortes (Kosma) del mio amato Jacques Prévert, o J’arrive e la patetica ossessiva Ne me quitte pas di Jacques Brel. L’altro giorno qualcuno mi ricordava che da bambino i genitori lo atterrivano con la minaccia dell’arrivo di Belfagor, a me si minacciava l’apparizione dell’Uomo nero. Ora ho capito che non era il Belfagor arcidiavolo di Niccolò Machiavelli, ma quello dello sceneggiato della RAI degli anni Sessanta, Il fantasma del Louvre, dove Juliette Greco si fece conoscere come grande interprete dal popolo italiano. La grande festa di acculturazione degli sceneggiati proposti da Ettore Bernabei che invitavano a leggere gli originali, in confronto ai melensi sceneggiati odierni con interpreti senza carattere e senza un proprio visus, quello di tanti ciclopici attori della nostra infanzia, tutti diversi per immagine e attitudini e rappresentatività.

 

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