LA POESIA POLITICA A PALERMO AL TEMPO DEI GIACOBINI

(Francesco Paolo Rivera *)

Il Club dei Giacobini in Rue Saint Honorè

Negli ultimi anni del XVIII° secolo l’eco della rivoluzione francese arrivò anche a Palermo  e  la ribellione napoletana contro la monarchia diede grande incremento alla poesia politica dell’epoca. L’opinione pubblica (salvo rare eccezioni) era uniformemente schierata contro queste nuove idee: i Giacobini responsabili del Terrore, antimonarchici, incutevano nelle masse una avversione invincibile nei confronti della Francia e dei Francesi. Pochi si sognavano di seguire quelle idee politiche, e quei pochi che ne avessero avuto la tentazione rischiavano la galera. Non era ammissibile che un suddito del Re di Sicilia fosse favorevole ad atti di ribellione, a principi sovversivi ispirati alla rivoluzione francese. Le classi sociali alte, che erano quelle che governavano il Regno non potevano condividere  le nuove idee rivoluzionarie perché contrarie alla loro conservazione, le classi basse non erano, sicuramente in grado – per la loro grande ignoranza – di comprendere le nuove idee e tantomeno di discuterle: ogni francese, per un siciliano, era un giacobino, quindi un anarchico pronto a sconvolgere l’ordine sociale, a distruggere la chiesa e la proprietà privata, e anche se erano trascorsi oltre cinquecento anni i Francesi erano sempre quelli del Vespro. Contro i giacobini un libricino scritto da un vescovo (avvisi politici a’ Vescovi eletti, adottati a’ tempi presenti) ammoniva “Oggi ogni pastore deve sapere come condursi con la porzione di gregge composta di fiere orribili, sanguinolenti e voraci: pantere, lupi, orsi e molto maggiormente di volpi astute e maliziose: voglio dire questa razza che scorre per tutto di filosofastri, massoni, saccentoni, politici …”. Ogni sistema era buono per tenere distanti i sudditi di Re Ferdinando dai Francesi (o dagli stranieri ritenuti tali)! La classe media, non molto acculturata, era quella che, con qualche buona probabilità nutriva qualche simpatia per le nuove idee giacobine e francofone, non tanto per simpatie verso le nuove idee politiche ma per reazione alla prepotenza dei governanti, per la corruzione che dilagava nella classe dirigente, e, perché non, per il fascino delle novità. Nel ceto civile e anche (stranamente) nel clero secolare e regolare era facile imbattersi in gente disposta ad aderire a movimenti rivoluzionari, in Sicilia, dopo il 14 marzo 1795, data dell’editto reale contro i Giacobini, molti sacerdoti vennero inquisiti (1). Si adottò la censura sui libri, specie su quelli che arrivavano a Palermo da fuori. Il padre teatino P. Sterzinger, nominato revisore, venne incaricato dell’esame degli scritti che arrivavano in dogana, da Napoli, dall’estero e particolarmente dalla Francia, e, in considerazione del crescente numero di documenti da esaminare, fu necessario istituire una apposita Commissione di Revisione che ebbe il compito di sopprimere tutto ciò che era ritenuto sospetto. I mercanti di libri furono obbligati (pena la carcerazione) di presentare il catalogo delle pubblicazioni che avevano in bottega per la vendita al pubblico, sia per quelli che erano già in bottega perché acquisiti prima del provvedimento governativo, sia per quelli pervenuti dopo: molti i libri che andarono bruciati per mano del boia (2), ma molti quelli che vennero imboscati per essere venduti “sotto banco” a prezzi maggiorati perché ritenuti “libri proibiti” e come tali maggiormente richiesti. Per l’insegnamento delle scienze nelle scuole occorreva la preventiva autorizzazione del Re, in persona. Molte le espulsioni di personaggi “sospetti”, che, nel dubbio, venivano trasferiti da Palermo a Napoli o viceversa, a disposizione del Governo centrale, molti – solo perché sospettati di simpatie per la rivoluzione francese o di giacobinismo, anche se appartenenti alle classi alte o addirittura alla nobiltà – anche senza prove, venivano relegati al Monastero di San Martino. Ci fu anche qualche esecuzione, il giovane e brillante giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi, sospettato, assieme al nobile Ferdinando Porcari, di congiurare contro il Regno, venne arrestato, torturato e condannato a morte, mediante decapitazione, eseguita il 2 maggio 1795, in piazza Indipendenza, assieme ai suoi compagni, (3) La situazione, nella Capitale, di condanna nei confronti del Giacobinismo e dei francesi, venne subito recepita dalla poesia politica: ecco un sonetto di Giuseppe da Ponte che divenne molto popolare: “Vantar tra ceppi libertà di Stato / in discorde anarchia per l’Eguaglianza / buon Governo cercar dall’ignoranza, / d’ogn’Erostrato (4) far un Numa, un Cato; / orrida povertà mirarsi allato, / e gli agi immaginar dell’abbondanza, / cangiarsi a ogn’aura, e poi vantar costanza, / chiamar felice un popol disperato; / stragi, sangue, ruine, ire, spaventi / piantar per base del dominio eterno, / e grandezza chiamar vil tradimento; / mostrare assassinando cuor fraterno, / un trono rovesciar, e alzarne cento, / è questa affè, Repubblica d’Inferno.”/

Non poteva certo mancare un sonetto di Giovanni Meli, contro la Francia e contro tutti coloro che parteggiavano per i Giacobini. Egli, che era monarchico, non fa alcuna allusione, nel suo componimento, alla possibile esistenza di Giacobini in Sicilia. Ecco il titolo: “Contro li Giacubini”: “L’antichi ànnu vantatu a Santu Sanu (5) / ‘ntra li strani prodigi astutu e finu. / sanava un ugnu e poi cadia la manu, / cunsava un brazzu e ci ammuddria lu schinu, / Ora c’è n’autru apostulu baggianu (6) / chi si ‘un c’è frati, almeno c’è cucinu, / è natu in Francia e poi di manu in manu / scurrennu s’è chiamatu giacubinu. / Duna a tutti pri re (7) ‘na staccia (8) tisa, / li fa uguali, però ‘ntra li guai sulu, / liberi, pirchì in bestij li stravisa (9). / Porta appressu frustati supra un mulu, / ‘na Roma nuda, un Napuli ‘n cammisa / e un’Italia scurciata e senza ….. / né resta ddocu sulu, / chi li Fiandri o l’Olanna … e ‘nsumma pati / desolata l’intera umanitati. / Cristi su li vantati / prodigi, ahimè, terribili e funesti / di lu giacubinismu, orrenna pesti! /  Oh scuncirtati testi! / Camina cu li cudi stu sunettu / pirchì veni alle bestij direttu.”

Seguono poi due “canzonette siciliane belliche” che minacciavano strage e sterminio ai Francesi: della prima delle quali si trascrivono alcuni versi: “Chi s’aspetta? All’armi, all’armi!  / si mora tra una serra-serra / vinni l’ura di la guerra / disiata da quant’à! / …. Nui lu pettu comu un brunzu / alli baddi espuniremu: / scrittu in pettu purtiremu / O la morti, o Diu e lu Re! / Impia Francia mmaliditta, / abbastanza ài gaddiatu / pirchì troppu l’hai stiratu / rumpiremu l’arcu sò. / L’armi nostri s’hanno vistu / di francisi sangu lordi, / forsi ancora ‘un ti ricordi / la Sicilia quale fu / …. Chi s’aspetta? All’armi, all’armi! / via, curremo, o fidi amici; / si lu Vespiru si fici / lu Cumpeta si farà./ Questa canzonetta venne composta per quella milizia reclutata per combattere i francesi a difesa del Regno di Sicilia. Tale milizia, secondo quanto si legge in una ordinanza (riportata dal m.se di Villabianca sul suo “diario inedito”) venne reclutata tra gli “inquisiti per delitti non gravi e non infamanti anche se carcerati”. …in fin dei conti, con questo sistema, ci si sbarazzava della folla dei ladri, dei malviventi, della gente oziosa che infestavano la pubblica tranquillità! Segue il testo del secondo inno, scritto dal monaco cassinese don Raffaele Drago, e intitolato “Canzonetta siciliana per uso del corpo franco de’ volontari del sig. Duca di Sperlinga da cantarsi al suono di una marcia militare”: “Vinni l’ura di cummattiri / già la trumma all’armi invita / damu, amici, e sangu e vita / pri la patria e pri lu Re. / Opponemucci a stu turbini, / chi scurrennu va la terra; / comu chista, nautra guerra, / santa e giusta nò, nun cc’è. / Già s’avanza l’avversariu, chi ha seduttu tanti genti / cu promissi fraudolenti / d’uguaglianza e libertà ….”. A questo secondo corpo franco, comandato da don Saverio Oneto, duca di Sperlinga, un altro prelato, don Pellegrino Terzo, inviò un indirizzo di augurio, con i versi di questo sonetto: “Saverio, all’armi, all’armi, ecco rimbomba / l’italo ciel degli oricalchi (10) al suono; / e l’empio Gallo al buon Fernando il trono / stolto minaccia, a tal che mugghia e romba. ….” Tutta questa gara di reclutamento di volontari, accompagnata da canzoni e da inni di guerra non servì ad altro che a far spendere al duca di Sperlinga e ad altri nobili inutili somme che, sul piano pratico, non servirono a nulla, se non a infiammare l’animo patriottico di altri poetuncoli di quell’epoca, i quali sentirono il bisogno di scrivere altri componimenti poetici che inneggiavano alla guerra contro gli odiati francesi. Ecco i primi versi di una canzonetta che i fanciulli cantavano, nella processione di Maria Assunta dei primi di agosto, alla Madonna “Li Turchi e li Francisi / nni vonnu arruinare / a Maria amu à chiamari / Idda nn’ajutirà.” Cui fece seguito una filastrocca: “O’ milli settecentu / ottantanovi orrennu / annata mmaliditta / di chiddu Diu tremennu! / Tu la porta grapisti / di danni e di ruina / pri tia muntau ‘n triunfu / la Setta Giacubina. / Sunnu li Giacubini / che portanu sta pesta. / Triunfa lu Diavulu / e si cci fa la festa. ….”

E di seguito un’altra canzoncina, arrivata, pare, dall’Italia continentale, che venne immediatamente tradotta in siciliano: “A sti infami Giacubini / cchiù la terra ‘un li ricivi, / cala forte la lavina (11) / e a mari li purtirà! / A sti ‘nfami Giacubini, / pezzi pezzi li farannu, / e li donni e picciriddi / la simenza si pirdirà. / A sti ‘nfami Giacubini / Li viu afflitti e scunsulati / ‘ntra lu ‘nfernu straziati / di lu Cifaru (12) di ddà /

Intanto, il Re Ferdinando terzo e la Regina Maria Carolina, furono costretti a lasciare Napoli e a rifugiarsi, in esilio, a Palermo. La cosa naturalmente entusiasmò i palermitani che finalmente vedevano il Re e la sua Corte nella capitale del Regno, e portò scompiglio tra i verseggiatori palermitani, i quali messi da parte “i Giacubini” se la presero con i napoletani repubblicaneggianti.  Ma lasciando da parte la storia, e  continuando la narrazione attraverso la poesia popolare di quell’epoca, una compagnia di cantanti, in un caldo pomeriggio del luglio 1799, pare si fosse recata a rendere omaggio ai Reali e nell’atrio del Palazzo Reale interpretò la canzone, su versi dell’abate Antonino Catinella, che segue: “pr’un piattu di linticchi / di libertà figura / si curri alla malura / e si tradisce un Re. / O brutta sciliraggini / di sti ribelli indigni! / Tutti viraci signi /c’amuri nun ci nn’è. / Grida l’età cadenti / e grida la ‘nnuccenza / nun cchiu, nun cchiu clemenza, / No, nun si nn’usa nò. / A forza d’armi e sangu / si superau ssu mostru: / Castel Sant’Elmu è nostru, / li spassi senti mò. / Sacra Real Famiglia, / la cosa è già finuta / la libertà è battuta / favuri ‘un cci nn’è cchiu. / Tocca a scialari a nui / vassalli fedelissimi / e sempri nimicissimi / di tutti sti monsù.” Certamente la vita che la Corte Reale svolgeva in esilio a Palermo, il Re che andava ogni giorno a caccia, i Sovrani che ogni giorno visitavano conventi e palazzi e che ogni sera, ospiti delle più alte famiglie aristocratiche, partecipavano a grandi feste e a pranzi luculliani, senza mai interessarsi della povera gente che moriva di fame, anche se in un primo momento avevano entusiasmato i sudditi, a lungo andare scandalizzò il popolo, ed ecco un sestina siciliana, della quale, secondo i critici, ogni verso è una pagina storica. Venne attribuita in un primo momento all’abate Antonino Catinella, ma, successivamente altri l’attribuirono al Meli: “Quattru scazzuna, cu’ mancia e cu’ vivi: / li puvireddi morinu di fami; / lu Re l’avemu cca, nun cc’è chi diri! / autru nun pensa chi a cacciari; / ‘nsutta po’ joca cu li Giacubini, / e nui ristamo misi a li succari (14).”

*) Lions Club Milano Galleria – distretto 108 Ib-4

Note:

1)L’arciprete di Troina, l’abate Cancilla professore all’Accademia degli Studi d Palermo, uno dei due sacerdoti bibliotecari del Senato, il sac. Mario La Rosa, e alcuni frati Conventuali e Minori, tutti sospettati di giacobinismo, vennero arrestati; bastava che si sparlasse in pubblico contro il governo o contro gli amministratori si era accusati di connivenza con i rivoluzionari, e, peggio, si veniva deportati da Palermo a Napoli o viceversa.

2)Libri di Rousseau, di Voltaire, di Diderot vennero dichiarati proscritti e la stessa fine fece anche l’Adone di G.B. Marino, il Decamerone del Boccaccio, l’Orlando Furioso dell’Ariosto e comunque qualsiasi pubblicazione che proveniva dall’estero e si cercava di farla entrare più o meno ufficialmente entro i confini del Regno;

3) Ecco, come nel suo “diario”, il m.se di Villabianca descrive le condizioni della Capitale e come suggerisce i rimedi da adottare: “I Giacobini nel nostro paese, cioè in Palermo e nella Sicilia tutta, non sono né i nobili, né i popolani, ma sono le persone che non ànno da perdere, birbi ed assassini. Da costoro nasce il fermento tumultuante che tanto tanto travaglia il Governo e a tutti strappa la quiete. L’impegno di questi ribaldi è di saccheggiare le case dei ricchi e mettere tutto a soqquadro, perché coi spogli degli assassinati si provvedessero nei lor bisogni. Che fanno, dunque, li più maligni di questa terza specie di gente? Danno a sentire a’ plebei popolani e persone minute come li Giacobini e traditori del Re sono li nobili, ricchi e li ministri di Stato; e come tali esser di beni che il popolo piccandosi della fedeltà al Re prendesse l’armi contro detti Giacobini, li massacrasse e ne facesse l’esterminio con portarne le teste al Re. Così quindi praticando il popolo, da una mano, fa un servigio alla maestà del Sovrano, e dall’altra mano, saccheggiando le case, si arricchisce delle lor rapine. Le persone minute e i plebei, come che ignoranti ed innocenti quasi tutti, si persuadano di tali consigli, e ne ànno cominciato l’opera, per disgrazia incendia città e paesi, tutt’ora con accompagnarla di omicidj e furti sebbene di poca leva. Li nobili, ministri e ricchi non se l’àn sognato di essere Giacobini, e neppure le maestranze e popolani, anche di buon senno, ma soltanto quelli vili uomini scellerati e vagabondi. E questo quindi è il fermento che sta bollendo a’ tempi nostri nelle popolazioni e luoghi della Sicilia. La cosa intanto è seria e pericolosa. Il Governo ora pensa al riparo di un luogo, ora pensa all’altro. Si trova in una continua agitazione.”:

4) Pastore greco che nel 356 a.c. distrusse il tempio di Artemide (una delle sette meraviglie del mondo);

5)Umoristicamente è il santo che fa i miracoli … al contrario;

6)sciocco,

7)al posto,

8)asta,

9) rovina,

10) oricalco è una antica lega di rame e zinco, che ha – in questo caso – il significato di tromba;

11)lavina è il torrente;

12) Cifaru è una persona maligna;

13 ) appesi alla corda.

 

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