I POTERI DI PUBBLICHE POTESTA’ nella Palermo settecentesca
(Francesco Paolo Rivera *)
Pianta di Palermo del Villabianca
Lungi dal volere illustrare i poteri Giurisdizionali del Regno di Sicilia durante quel periodo nella Capitale dell’Isola, scopo di questo scritto è quello di curiosare come venivano utilizzati e condivisi tali poteri soprattutto nelle “caste” che governavano la Città. Iniziando dagli affari civili: … da carcerieri a carcerati …! sembrerebbe una battuta, ma, purtroppo, succedeva anche questo nella Palermo del settecento, e non si può dire che succedesse tanto raramente …Tutti coloro che avevano un incarico o una carica ufficiale, e a quell’epoca per ricoprire determinate cariche o incarichi si doveva far parte di determinati classi sociali (1), erano considerati o si consideravano titolari di determinate prerogative o immunità.I nobili, gli ecclesiastici, i militari, i civili, i maestri e gli ufficiali dell’Inquisizione (fino al 1782, quando il Tribunale dell’Inquisizione venne abolito) erano delle vere e proprie caste che godevano di prerogative e privilegi che era meglio – onde evitare conseguenze pericolose – non toccare o, addirittura, mettere in discussione; si rischiavano fastidi di qualunque tipo, anche gravissimi e addirittura di natura giudiziaria. Se per dimenticanza, per ignoranza e anche in perfetta buonafede non si rispettavano norme risalenti magari a decine di anni prima, oppure si interpretavano (più o meno correttamente, o comunque non “nel modo in cui facesse comodo ai potenti”) norme per renderle operanti in casi concreti, si rischiavano ricorsi al Pretore, al Senato, alla Giunta dei Presidenti e del Consultore, al Capitano Giustiziere, al Presidente della Regia Corte, all’Arcivescovo, al Giudice della Monarchia, al Vicerè fino ad arrivare direttamente al Re … e, quel che è peggio, che spesso non si aveva la certezza circa l’autorità delegata per la risoluzione delle vertenze alla quale si sarebbero dovuti rivolgere i ricorsi, ma – peggio ancora – l’autorità che si vedeva annullare, a seguito di un ricorso, il proprio provvedimento, non sopportando questa forma di deminutio capitis, non mancava di vendicarsi, sia nei confronti di chi presuntivamente non aveva rispettato la norma sia nei confronti dell’organo che gli aveva dato torto. Molti i casi evidenziati dai cronisti e nelle pubblicazioni ufficiali di quell’epoca. Eccone alcuni esempi: Il 17 luglio 1774 la ronda delle Maestranze catturò, nel quartiere della Conceria (mandamento Castellammare), tre (degli otto) Commissari della Corte Capitanale, li accusò di furto e li condusse al carcere della Carbonera (era quello del palazzo del Comune), il che comportava, di conseguenza, che il giudizio contro gli arrestati, fosse affidato alla competenza del Pretore. Ma il Capitano Giustiziere (il più alto Magistrato), il duca di Villarosa, non essendo d’accordo sulla competenza dell’autorità proposta per la soluzione di questo caso, (pare che se ne sia risentito come per una offesa personale, in quanto i rei facevano parte dell’ufficio del quale era a capo) reclamò i tre colpevoli. Il capo ronda, dal canto suo (forse perché temeva che tutto si sarebbe risolto con un nulla di fatto), chiese giustizia sommaria, e il Pretore, il p.pe di Scordia, (forse nel tentativo di cercare una soluzione che salvasse capra e cavoli), spedì i tre arrestati, in sedie volanti (in modo che non fossero visti) al Carcere del Castello, a disposizione del capo della giustizia. Per non dispiacere le Maestranze, li fece scortare dalle ronde di esse, in considerazione del fatto che le Maestranze insistettero sia col Pretore che col Vicerè, affinché il giudizio rimanesse affidato alla competenza comunale. Il Pretore, forse anche per una celere risoluzione della questione, condannò i rei a una solenne bastonatura, e il Vice Capitano Giustiziere (secondo il quale la competenza era riservata alla Corte Capitanale) venne destituito. Nel 1791, un certo don Giuseppe Bracco, che svolgeva l’ufficio della reggia segreteria, in conseguenza di debiti, venne portato avanti al Giudice pretoriano, al quale (invece di cercare di rabbonirlo) rivolse pesanti ingiurie. Il giudice lo fece condurre alla Vicaria, (carcere nel quale non poteva essere recluso perché il reo era di origine nobiliare, e, il carcere della Vicaria era destinato solo ai plebei). In conseguenza di ciò la Corte Senatoria, offesa per tale determinazione, fece condannare al carcere il Giudice Pretoriano – Sebastiano Procopio!!! Il Maestro Razionale del Senato (una specie di Ragioniere generale dello Stato), vantando i suoi quarti di nobiltà, pretendeva di sedere negli stalli di onore destinati al Pretore, ai Senatori e al Sindaco, cosa non tollerata dai Senatori che ne fecero formale divieto. Naturalmente il Razionale, ritenendosi offeso, se la legò al dito, e il 14 settembre 1792, in occasione delle Feste di Santa Rosalia, durante la quale il Senato si recava, in pompa magna, in Cattedrale, l’ultima carrozza, quella destinata al trasporto degli ufficiali nobili – tra i quali avrebbe dovuto prendere posto proprio il Maestro Razionale – era rimasta vuota, infatti gli ufficiali nobili, ovviamente istigati dal Razionale, malgrado l’ordinanza senatoria disponesse che tutti avrebbero dovuto prender parte alla manifestazione (2), avevano disertato la processioneQuesti avvenimenti, dettati soprattutto dalla vanità di primeggiare, costringevano le massime autorità non solo a controllare ma, a prevenire, eventuali errori che potessero essere commessi in occasione di pubbliche manifestazioni, errori che avrebbero successivamente provocato dispacci reali, vice reali, o altri guai del genere. Altra questione che, spesso, generava dissidi, era l’uso dell’appellativo di “eccellenza” al quale i membri del Senato tenevano particolarmente. In conseguenza di una delle tante carestie, che affliggevano l’Isola, nella primavera del 1793 il Governo inviò a Caltagirone un Commissario generale, il b.ne Gioacchino Ferreri ex giudice della Gran Corte, il quale, entrato in contatto con i membri del Senato di quella Città, come di abitudine, fu trattato con l’appellativo di Eccellenza. Il Ferreri, forse perchè non informato che i Senatori di quella città avevano o ritenevano di aver diritto all’appellativo di Eccellenza, si rivolse a loro con l’appellativo di “Illustrissimi”; questi ultimi, offesi, lo trattarono con lo stesso titolo. Il Ferreri, a sua volta adontato, denunciò la cosa al Vicerè, il quale costrinse i membri del Senato di Caltagirone (3) a scusarsi di persona con il Commissario generale. Don Ippolito De Franchis, Maestro di Cerimonie, Banditore della Città e mazziere (4), chiese di essere dispensato dal compito di mazziere (affidandolo a sue spese ad altri). L’Agente del Senato, invidioso del favore concesso, chiese per sé il privilegio di “far la referenda degli affari litigiosi stando seduto vicino al maestro Notaro o al Razionale del Senato.E passando dagli affari civili alle giurisdizioni ecclesiastiche e religiose, la cosa si complicava, in quanto era più difficile stabilire la competenza sia in materia territoriale che in materia di supremazia tra un luogo di culto e un altro. Si ha notizia di un parroco di una chiesa della Kalsa che per la processione del Corpus Domini chiese di poter trattare l’offerta dell’acqua santa nella chiesa di S. Nicolò della deputazione del Monte di S. Venera (di competenza territoriale del Senato) al Parroco dell’Albergheria, che, in conseguenza del restauro della chiesa dipendeva provvisoriamente da Casa Professa (che fungeva, in quel momento, da cattedrale) … la faccenda divenne irrisolvibile per contrasti di competenza. Altra grana tra il convento delle Benedettine di Santa Rosalia che non intendevano sottoporsi alla giurisdizione della parrocchia di San Giovanni dei Tartari per la somministrazione del viatico e dell’estrema unzione di una consorella. Sorse conflitto tra il convento dei Sett’Angeli e quello della Pietà quando una monaca ottenne dal Papa il consenso di professare i voti dominicani in quest’ultimo convento: … il Papa non ha questa facoltà, e se ce l’ha deve prima sentire la Correttrice dei Sett’Angeli e la Provinciale della Pietà … fu il grido delle consorelle, che fecero subito ricorso al Giudice della Monarchia. L’Arcivescovo sosteneva le parti del Papa, mentre il Vicerè sosteneva quelle del Giudice, … dopo una lunghissima lite, a forza di dispetti e mormorazioni, prevalse il volere del Papa. Il Villabianca riferisce che Mons. Airoldi, essendo stato nominato vescovo, avrebbe voluto consacrarsi nella chiesa del Salvatore, in quanto nell’attiguo convento viveva una sua sorella monaca: dovette rinunciare a tale suo desiderio, per evitare gravi conseguenze, e consacrarsi nella cappella del Seminario arcivescovile. Per il decesso dell’Arcivescovo Sanseverino, nel 1793, la Compagnia della Pace e della Carità fece opposizione alla Compagnia del SS. Sacramento della Cattedrale, che avrebbe voluto prender parte al corteo funebre, perché a loro, del ceto nobile, competeva la preminenza, ma non quella del corteo funebre, perché immediatamente innanzi al Capitolo non poteva andare altri se non l’Ordine dei Predicatori (5).
La normativa formale in materia di funzioni ecclesiastiche dovevano essere puntualmente osservate:
- in Cattedrale, il Magistrato civico aveva l’obbligo della ”incensata” (onore liturgico): il Cerimoniere del Comune ritirava, sull’altare, l’incenso per il Senato: un terminatore (carica ecclesiastica) e un canonico – diacono assistente – andavano col Cerimoniere, contemporaneamente un altro terminatore e un altro diacono andavano al Capitolo (assemblea dei Religiosi). In pratica, al canto dell’Agnus Dei, il Cerimoniere saliva sull’altare a prendere la pace e contemporaneamente il suddiacono e un terminatore andavano al Capitolo ove il Senato e il Capitolo dovevamo ricevere l’abbraccio della pace …., e il tutto doveva avvenire “eodem tempore” per evitare che un indugio potesse offendere la Maestà dell’uno o la dignità dell’altro !
- in occasione di sacre funzioni, per obbligo, al Senato e al Capitano Giustiziere si doveva esibire una torcia del peso e delle dimensioni prestabilite (del peso di un rotolo e mezzo per i Senatori e il Capitano Giustiziere e di due rotoli per il Vicerè) … e guai a sbagliare … sia per la forma che per il peso !
Colui il quale cercava sempre l’occasione per sopprimere o per svilire queste formalità era il Vicerè m.se Domenico Caracciolo (sicuramente da lui ritenute inutili ed estemporanee), e non perdeva l’occasione per dare pubblico scandalo. Nelle cappelle reali il Vicerè rappresentando il Re aveva facoltà (in quanto privilegio di ordine superiore) di stare col capo coperto per tutta la cerimonia …. In occasione della cappella reale tenutasi per le Feste di Santa Rosalia dell’anno 1782, il Caracciolo, considerato che aveva facoltà di stare col capo coperto, con grande scandalo dei presenti, si tolse il cappello per tutta la durata della cerimonia … si era tenuta una cappella senza cappello (6)!!! E, a proposito del m.se Caracciolo, ecco un altro aneddoto: pare che un canonico abbia fatto ricorso al Vicerè, in quanto in una funzione pubblica di chiesa, non aveva ricevuto le incensate alle quali aveva diritto … il Vicerè gli chiese … “quante ve ne spettavano ?” … “tre, eccellenza” … e “quante ve ne hanno date?” …. “solo due”, rispose il canonico … “eccovi il resto! “ rispose il Vicerè che buttò fuori il malcapitato a calci e a pugni!
Certo si doveva stare molto attenti a non sbagliare … gli aneddoti citati danno la misura delle preminenze di giurisdizioni esistenti in quell’epoca, ma danno, anche, la misura della superbia e della vanità umana !
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* Lions Club Milano Galleria – distretto 108 Ib-4 – matr. 434120
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Note
- prendendo a prestito la battuta dal Parini, occorrevano i “magnanimi lombi”;
- l’ordinanza senatoria prescriveva che tutti gli Ufficiali nobili partecipassero a tutte le funzioni del Senato – vespri, messe solenni, processioni … – occupando il luogo dopo il “postergale” (dal latino “post tergum” spalliera di sedia) del Senato, agli “stalli” (sedili con braccioli e spalliera degli edifici civili e religiosi);
- reo forse di “crimenlese” (dal latino “crimen laesae maiestatis” cioè delitto di lesa maestà):
- aveva diritto alla “manica” (uniforme) di gala, al banco da sedere al principio della predella del Senato, vicino al Pretore in paritarie funzioni e in quella della Cattedrale, e il primo stallo dei beneficiati;
- pare che tale incresciosa discussione abbia generato lo sdegno del sac. D’Angelo, secondo il quale, nel secolo illuminato “la superbia” era ancora quella che prevaleva;
- la battuta è presa in prestito dai Diari del m.se di Villabianca.