TRA WAGNER E RENOIR
(Carmelo Fucarino)
Saint-Eustache e Les Halles
Il piccolo Pierre-Auguste (Limoges 1841-1919) si era trovato da ragazzo, come tanti, a vivere il fascino delle nostre Chiese, specialmente lui alunno dei Fratelli delle scuole cristiane. Quasi tutti i bambini, fino alla mia infanzia, almeno, hanno avuto esperienza di quel profumo di incenso, di quei canti impressi nel cuore e l’organo struggente, quelle canne grigie che erompevano nelle navate e scioglievano il cuore. Per altri il rapporto è stato più coinvolgente e si è indossata la tunica bianca del chierichetto. Pierre-Auguste ebbe miglior sorte: diede la sua voce a Parigi al coro della chiesa di Saint-Eustache. È ancora oggi una delle più grandi e famose di Parigi, in gotico flamboyant in cinque navate e illuminata da stupende vetrate, che conferiscono una buona illuminazione all’ambiente. La chiesa fu fatta costruire da quel Francesco I che probabilmente acquistò da Raffaello la Gioconda che aveva portato con sé in Francia nel 1516. Essa conserva la Cena di Emmaus di Rubens e un Luca Giordano. E qui riposano l’economista Jean-Baptiste Colbert e Madame de Pompadour.Ma altre vie gli aveva preparato il Signore, nonostante questi invitanti e prestigiosi auspici. Per la consuetudine giovanile dell’educazione cristiana sarebbe perciò solo una notizia insignificante, se quel coro non fosse stato diretto da Charles Gounod, certo, all’epoca ancora sconosciuto, ma sempre Gounod era. Non solo, si dice che, riconosciute le buone capacità canore del ragazzo, gli avesse dato lezioni private per istradarlo all’attività di cantante lirico e ne propiziasse già l’entrata nel coro. Egli invece con i gessetti di sarto del padre disegnava cani e gatti così perfetti che il padre ritenne più opportuno decidere diversamente. Cosa poteva fare un ragazzo a Limoges? Certo, disegnare porcellane. E così a tredici anni entrò in una manifattura di porcellane. Fallita la fabbrica, lavorò in proprio, dipingendo stoffe e ventagli. Naturale il passaggio a bottega di un pittore e questi fu Marc Gleyre. E dal romanticismo la maturazione con Claude Manet e gli impressionisti, l’adesione alla «Société anonyme des artistes peintres, sculpteurs, graveurs», e le mostre, la prima allestita il 15 aprile 1874, nella mancanza cronica di denaro. E le critiche feroci e gli insuccessi.
Saint-Eustache, interno
Come per tanti altri pittori antichi e moderni, si pensi a Picasso, necessario il viaggio in Italia e l’iniziazione alla divina pittura. La prima tappa nell’ottobre 1881 fu la Venezia di Carpaccio e Tiepolo, la moda del tempo come per il suo caro Ingres sulle orme dell’arte antica e dei maestri rinascimentali. Poi con l’amica Aline Charigot che sposerà dieci anni dopo, passò da Roma a Napoli, a Capri ove la dipinse nella Bagnante bionda, «quasi completamente nuda e al dito un significativo anello nuziale». Ai primi di gennaio del 1882, in procinto di ritornarsene in patria, il fratello Edmond, su richiesta di amici wagneriani, lo convinse ad andare a Palermo per fare un ritratto a Wagner, favorito da una lettera di presentazione del musicista Jules de Brayer, amico di Cosima e del maestro. Lasciata a malincuore Charigot a Napoli, si imbarcò sul «pacchetto» per Palermo in attesa del mal di mare. E dimenticò a Napoli la preziosa lettera, tanto lo fece di malavoglia e tanto da trovare Palermo «triste», mentre in questo stato d’animo saliva su un omnibus con la scritta Hotel de France. Nessuno gli seppe dire dove vivesse Wagner, tranne due tedeschi. Mentre attendeva da Napoli la lettera richiesta per telegramma, salì a Monreale «dove ci sono bei mosaici» e si perdette dietro «ad un sacco di tristi riflessioni». Scrisse poi un biglietto in cui chiedeva di salutare il maestro per portare sue notizie a monsieur Lascoux e madame Mendès, nulla ricordando del più propizio de Brayer. Wagner gli fece dire senza mezzi termini dal domestico che gli aveva consegnato il biglietto che non poteva riceverlo. Oltre le credenziali pervenute lo salvò il pittore russo Joukovski, che lo presentò a Cosima. Ma si beccò un altro dispiaciuto rifiuto: Wagner stava per mettere l’ ultima nota al Parsifal ed era «in uno stato di malattia e di nervi, non mangia più». Insomma lo pregava di tornare l’ indomani. Sarà Joukovski, incontrato per caso, ad annunziargli la chiusa il 13 gennaio del Parsifal e l’invito per il pomeriggio alle cinque. Ricevuta migliore accoglienza, fu introdotto dopo la serra in un salottino, ove attese sprofondato in una grande poltrona. E apparve Wagner, come lo vide Renoir in una lettera del 15 gennaio 1882 indirizzata ad un amico, un vero e proprio sketch di alta comicità: «È il Maestro, con il vestito di velluto dalle grandi maniche foderate di raso nero. È bellissimo e amabilissimo e mi porge la mano, m’invita a stare seduto e allora comincia una conversazione pazzesca, frammista di hi! e di oh! metà francese, metà tedesco con desinenze gutturali. Sono ben gontento. Ah! Oh! E un suono gutturale». C’è da sbellicarsi, forse per un’alzata di troppo di gomito, non si quanto più abbondante fra i due: «Lei viene da Parigi! No, vengo da Napoli e gli racconto la perdita della lettera, cosa che lo fa molto ridere. Parliamo di tutto. Quando dico “noi”, non ho fatto che ripetere: Caro Maestro, senz’ altro, Caro Maestro e mi alzavo per andarmene, allora mi prendeva le mani ricacciandomi nella poltrona. Aspeddi ancora un boco, mia moglie ora fiene e il buon Lescoux gome va?». Finalmente arrivò Cosima che pronunciò male il nome di de Brayer e prontamente Renoir, con grande sconcerto della Cosima, dice di non conoscerlo affatto. Ma subito capisce l’ equivoco e per chiarire che non millanta credito fa l’imitazione di Lescoux. Insomma, meglio di Feydeau. Parlano della prima parigina del Tannhäuser. Renoir ricorda ancora: «Quante assurdità avrò detto! Finivo col cuocere, essendo ubriaco e rosso come un gallo […] Detesta gli ebrei tedeschi e tra l’ altro Wolff. Ha demolito Meyerbeer». Così Wagner accettò di posare: «Lei sa- dice- bisognerà essere indulgente, ma farò quel che potrò, se non durerà a lungo non sarà colpa mia». L’indomani 15 gennaio 1882 a mezzogiorno Renoir si presentò e fece il ritratto: «Wagner è stato molto allegro, ma nervosissimo e rimpiangevo di non essere Ingres. Per farla breve, ho sfruttato bene il mio tempo, credo 35 minuti, non sono molti, ma se mi fossi fermato prima, il ritratto veniva bellissimo perché il mio modello alla fine perdeva un po’ di allegria e diventava rigido. Ho seguito troppo i cambiamenti […]. Alla fine Wagner ha chiesto di vedere ed ha detto: Ah! Ah! Assomiglio ad un pastore protestante, il che è vero. Insomma ero molto felice di non avere fatto troppo fiasco: esiste un piccolo ricordo di quella testa stupenda». Lievemente diverso, invece, il giudizio registrato nel diario di Cosima: «Di questo singolarissimo risultato R. pensa si direbbe un embrione di angelo, bevuto da un epicureo, come un’ostrica». L’incontro fu deludente per entrambi e con molta probabilità contribuì all’antipatia che Renoir nutrì per Wagner. Basterebbe lo sprezzante giudizio espresso anni dopo, a Bayreuth, davanti ad una rappresentazione della Valchiria: «Non si ha il diritto di rinchiudere la gente al buio per tre ore […]. Si è costretti a guardare l’unico punto luminoso: la scena. È una vera tirannia! Mi può venir voglia di guardare una bella donna in un palco. E poi, siamo sinceri. La musica di Wagner è molto noiosa!». Invece fra tanti acciacchi si precipitava ad assistere alla Petruška di Stravinskij.Raccontava il figlio Jean, noto regista cinematografico e autore della biografia Renoir mio padre (1962), che per lui il teatro era spettacolo da godere come una passeggiata in campagna e si disinteressava completamente dell’intreccio o dei caratteri. Emblematico perciò il suo rapporto con il teatro espresso in due dei più celebri dipinti.
Renoir , Il palco, 1874, Courtauld Gallery, London
Renoir, Bal au moulin de la Galette, 1876, Musée d’Orsay, Paris