I GIGANTI DELLA MONTAGNA DI GABRIELE LAVIA
(Gabriella Maggio)
Foto Tommaso Le Pera
Nel mese di dicembre 2019 sono stati in scena al Teatro Biondo di Palermo I giganti della montagna di Luigi Pirandello per la regia di Gabriele Lavia. Grande folla di attori sul palcoscenico come oggi raramente si vede, grazie alla produzione triplice che ha messo insieme la Fondazione Teatro di Toscana, il Teatro Stabile di Torino, il Teatro Biondo di Palermo, col contributo della Regione Sicilia, il sostegno dell’Associazione Teatrale fra i Comuni del Lazio/Comune di Montalto di Castro e Comune di Viterbo. L’opera, vero e proprio testamento spirituale dell’autore, appartiene all’ultima fase del teatro pirandelliano, quella dei cosiddetti Miti, di cui fanno parte La nuova colonia del ’28 e Lazzaro del ’29; annunciata sin dal ’28, iniziata intorno al ’30, l’opera è stata costantemente presente nella mente dell’autore che, pur non portandola a termine, vi lavorò fino agli ultimi giorni di vita. Come ricorda il figlio Stefano, Pirandello fino alla “ penultima nottata” della sua vita andò cercando il finale del suo ultimo Mito. I Giganti della montagna sono considerati uno dei capolavori teatrali di Pirandello per la loro incompiutezza, che ne accresce il fascino, in linea col romanzo Uno, nessuno e centomila e per il compimento di concetti quali “c’è un oltre in tutto” e “esseri obliqui e randagi” che richiamano i “Quaderni di Serafino Gubbio operatore“. Il significato dei Giganti ruota tutto intorno alla metafora dei giganti e alla morte dell’arte: se il mondo dei giganti altro non è che il mondo moderno, in cui dominano la meccanizzazione, l’alienazione e la violenza incalzante, il tentativo della contessa Ilse di allestire a tutti i costi la rappresentazione della Favola del figlio cambiato, opera di un giovane poeta morto per lei, davanti al pubblico dei giganti non può che essere destinato al fallimento. Non c’è spazio per l’arte nel mondo compromesso con la modernità; l’unico spazio che ancora resiste è quello dei confini dell’abisso, agli orli della vita, della villa degli Scalognati, gli ultimi a poter tentare di far rivivere la magia della creazione artistica. Ma si tratta di una magia possibile solo a pochi individui isolati, sensibili e malinconici, appunto obliqui e randagi, e sempre più incalzata dal rumore assordante della storia. La scena è costituita da un teatro in rovina, da cui traspare l’elegante bellezza di un tempo. Lavia-Cotrone ha così ambientato la sede degli Scalognati, dando evidenza simbolica all’abbandono odierno del teatro. L’interpretazione di Lavia è perfetta nella modulazione dei toni della voce e nella gestualità, che fanno trasparire nella loro pienezza il compendio dei motivi pirandelliani. Irraggiungibile il suo Cotrone anche rispetto alle buone prestazioni di Clemente Pernarella nei panni del conte, di Federica Di Martino, la contessa, che si strugge perché non vuole rinunciare alla realtà del mondo. Efficace la recitazione del numeroso cast di Scalognati che indossano bei costumi e maschere creati da Andrea Viotti e Elena Bianchini. Completano la bella messa in scena, di cui certamente il pubblico si ricorderà, le luci di Michelangelo Vitullo e le scene di Alessandro Camera.