GABRIELLA MAGGIO O LO STUPORE DELLA POESIA
(Carmelo Fucarino)
Potrei cominciare come tanti recensori prestati alla critica letteraria con l’illustrare i canoni generali ed universali della poesia. Almeno quello che nella mia professione anche di poeta mi sembrerebbe che rappresenti la poesia, cosa intendiamo personalmente e individualmente per “Poesia” (naturalmente alta, con la p maiuscola). La frequentazione classica antica mi potrebbe suggerire la radice del termine greco poiēsis, da quel generico poiéō che per i Greci significava “fare in forma poetica”, diverso dal pràssō, “fare per compiere”, portare a termine. Potrei rivederne la valenza in latino nella corrispettiva traduzione pŏēsis o nella sua evoluzione storica dalla Poetica di Aristotele fino alle moderne teorizzazioni. In questa ripresa di definizioni citate o inventate ad uso personale si esercitano in genere la premessa, secondo me abusata e in genere inutile, o la presentazione di una raccolta poetica. Pensate ad una prefazione, scritta da un amico, al libellum dell’ardente giovanotto Catullo veronese, innamorato ma non solo. O per andare alla nascita della moderna poesia, dopo gli ignoti canzonieri dei poeti della Scuola siciliana che conosciamo nella traduzione in vernacolo fiorentino, una premessa al primo naturale capolavoro poetico, il Canzoniere che Petrarca in effetti aveva intitolato, sulla scia dantesca, Rerum vulgarium fragmenta. Forse per negare valore alle introduzioni ne sto elaborando una nella forma del non dire, della classica preterizione retorica e me ne scuso. Volevo soltanto dire che un florilegio è per se stesso, senza definizioni e interpretazioni, peggio ancora con arbitrari accostamenti e citazioni di altri. Perciò chiudo con una norma generale: è il poeta con la sua opera a dichiarare cosa è per lui poesia. Sarà poi il lettore a riviverne l’esperienza attraverso la propria lettura interiore o declamandone i versi a voce, secondo il ritmo prosodico e le diversità tonali. Sì, perché anche la fruizione può avere una sua particolare strategia: la parola, come segno scritto da rielaborare con il pensiero, forse il Verbum latino, oppure come phōnè, il “suono della voce” che si emette con gli organi fonatori, cioè con gola, ugola, labbra, lingua, da cui la definizione generica per antonomasia di ogni comunicazione di pensiero. In effetti una poesia non è in modo assoluto traducibile in altra lingua, perché è questa incapace di riprodurne le originarie sonorità fonetiche e ritmi prosodici. Con questa squinternata premessa che voleva escludere le premesse passo subito al reale protagonista del mio intervento, Emozioni senza compiacimento di Gabriella Maggio, con prefazione di Dante Maffia, Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia, 2019. In linea con la mia convinzione della poesia, la sola che può parlare di se stessa e dell’autore che la ha creata Gabriella Maggio mi esime dall’azzardare una mia definizione o meglio interpretazione della sua poesia. Lei stessa mi ha sollevato da questa imperativa categoria definitoria. Ha da se stessa precisato in forma semplice ed epigrammatica cosa lei intende per poesia, ma soprattutto cosa è in linea di massima la sua poesia. I termini, i “loci” poetici, fisici esterni e quelli interiori dell’anima. Ecco cosa afferma ad incipit del canto a lei dedicato (La poesia, p. 40): «La poesia è una grande madre / accogliente e generosa / alma poësis». È essa riconosciuta quindi nel significato onnicomprensivo come la generatrice, quella trasposizione creativa che era un tempo la Magna Mater, la creatrice dell’universo. Così come simbolo della natura ne «accoglie alberi e tramonti / nuvole ed orizzonti / ombre e fasci di luce», quelli che sono i confini tra la vita e la morte, tra terra e cielo, tra tenebre e scie di luce, le antitesi che sono principio e fine, opposizioni sulle quali si regge da sempre l’universo. E ad essa non sfugge neppure dell’uomo la contraddizione dei baci e delle lacrime, in un crescendo che si espande nelle gioie dell’amore, «sorrisi d’occhi / amori /fiori / cuori». Tra natura che in eterno si ricrea e rinnova ciclicamente e battiti del cuore umano. Essa non solo accoglie nel suo seno materno, ma si mostra “accondiscendente”, a dare il suo consenso a questo abbraccio. A due condizioni tuttavia, «se l’intenzione è buona / e il cuore è puro». Ed invita tuttavia nascosta «nel suo angolo invisibile / osserva / suggerisce pronta la parola». In questo suo vigile abbraccio sta tutta la sua potenza materna. In tale progetto di antinomie si attua la creazione poetica di Gabriella Maggio, nella forte antitesi tra naturale e umano, in un perenne alternarsi delle stagioni della vita, quello ciclico della physis e quello unico ed inderogabile dell’uomo. C’è il tepore primaverile che «ha messo in fuga / le nuvole della tempesta / l’azzurro accecante dà ali ai vostri piedi / ansiosi di correre», verso nuove strade, nuovi saperi (Il tepore primaverile, p. 37). Così quei tramonti precoci e malinconici dell’inverno (Inverno, p. 41), in cui «l’occhio vorrebbe chiudersi in un nulla di pace / nell’accogliente tenebra dell’oblio», nell’incessante procedere dei passi, nello snodarsi delle strade, con la consapevolezza che «il peso della vita è fatto di vuoto / di insoddisfatto desiderio di dare / senso alla tenebra». L’inverno diventa simbolo del nulla, ove le stagioni cicliche degli Orfici che spiegavano il loro alternarsi come speranza soteriologica non trovano qui uno sbocco, una possibilità di salvezza. Questa opposizione era d’altronde preannunziata nel gioco iniziale dei brevissimi haiku ternari, un omaggio alla prima forma poetica del Medioevo giapponese. Qui alla freschezza dell’acqua fa da bordone la candida nuvola che “vola felice”, ma il rilucere del sole sul mare diventa “solitudine”, le carezze amorose sono rivissute nei ricordi, le parole scure attendono “nuove speranze”. E su tutto proprio a preannunzio incombe il “rischio” nella ricerca di una “identità segreta”, «nel rimando di specchi / appannati», verso una «ambigua autoassoluzione». Oppure si amplifica in quell’inno alla parola, in tutte le sue variazioni antinomiche, necessaria “per dire il mondo”: parole sempre, piene e vuote, abbandonate, dette ascoltate rubate, sussurrate, «aguzze come pietre scagliate con forza» (Parole, p. 18). E la furia della penna su quel foglio incurvato in cui «le lettere inseguono / la sfuggente armonia / tra urla di disagio» (Il foglio, p. 31). Vorrei chiudere, come Gabriella, con il simbolo della chiave, il mistero che potrebbe essere svelato, «amuleti protettori / dal dolore» (Le chiavi, p. 39). È chiaro alla fine che il filo spinato non protegge, è uno “scudo palliativo”, perché «le ombre umane sono grandi e tutte uguali / come si può fare la differenza? / E non è una questione che riguarda gli altri» (Muri di filo spinato, p. 43). Sembra l’eco più amara e senza speranza della gnòme della Pitica VIII di Pindaro (vv. 95-96), «l’uomo sogno di un’ombra»,σκιάς ‘όναρ ‘ άνθρωπος o l’oraziano pulvis et umbra sumus, che riecheggia il biblico «Polvere sei e in polvere tornerai» (Genesi, 3,19, γῆ εἶ καὶ εἰς γῆν ἀπελεύσῃ). O i ricordi giovanili del carducciano Giaufré Rudel sulla spiaggia di Tripoli fra le braccia della sua Melisenda:
«Contessa, che è mai la vita?
È l’ombra di un sogno fuggente.
La favola breve è finita,
Il vero immortale è l’amor.»
Tutto questo si sviluppa in una dolorosa elegia che si adagia in un linguaggio scelto che ne rileva sospensioni, attese, doloroso e sconsolato pessimismo in qualche momento, lo scorrere della vita che è piena di alti e bassi, di gioie e dolori. Il libellum aspetta una lettura più completa di questa ed attenta a tutte le risonanze.