LE MAESTRANZE PALERMITANE NEL XVIII SECOLO
(Francesco Paolo Rivera *)
Il M.se di Villabianca
Erano definite Maestranze della Città, i collegi di arti e mestieri, che – secondo quanto riferisce il m.se di Villabianca (1), nel settembre 1773, erano settantaquattro che formavano un corpo di circa trentamila uomini tutti atti all’uso delle armi (schioppi e armi offensive di ogni sorta sia per la custodia del loro tetto, che per il piacere della caccia e per il mestiere della guerra). Come è facile rilevare le notizie pubblicate dal Villabianca, riferentisi al settembre 1773, vennero rilevate dal cronista in occasione dei moti rivoluzionari di quell’anno, che portarono alla defenestrazione del Vicerè Fogliani. In quella occasione le Maestranze, militarmente organizzate e armate – quali guardie cittadine -, protessero il Vicerè dalla folla inferocita, (lungo tutto il percorso da Porta Nuova a Porta Felice, consentendogli di imbarcarsi per Messina e da lì rientrare a Napoli,) e, tenendo sotto controllo le mura cittadine e i cannoni per la difesa della città,, mantennero l’ordine evitando tumulti, fieri della fiducia che il Governo aveva loro conferito.Le Maestranze erano organismi politici ed economici, a cui il Governo, con appositi regolamenti, riconosceva implicitamente il monopolio dell’arte sul lavoro e sulle persone, e il limite alla concorrenza, conferendo loro personalità giudica. Tuttavia avevano come base anche il principio religioso. Le maestranze, in base al numero degli affiliati, all’importanza dei generi commerciati o prodotti, e anche in base alla “anzianità” della costituzione del sodalizio, accoglievano nel loro ambito artigiani e operai di sfera elevata, quelli delle arti maggiori (2), ai quali si aggregavano operai e artigiani di “mezzana sfera” o addirittura quelli di “infima sfera”, che a causa di questa loro forma di inferiorità nei confronti degli artigiani e operai della “sfera maggiore”, divenivano più servili e per questo venivano trattati come tali. La soggezione a questa forma di servilismo e anche la mancanza di rappresentanti propri generava spesso litigi e “scissure” (dissidi, divisioni, discordie).Nessuno poteva presentarsi al lavoro senza che venisse riconosciuto “lavorante”, nessuno poteva entrare nelle maestranze se non era diventato “maestro”. Il Maestro era il più alto grado della scala delle maestranze, e per diventare maestro si dovevano fare il praticantato (3), che durava circa tre anni, e tante volte anche per più tempo, fino a quando vi fosse stato posto per il praticante o vi fosse stata l’opportunità per l’aumento del lavoro o per la necessità di più uomini patentati. Il lavorante era pagato a giornata o a cottimo, ma non poteva essere associato al maestro o aprire l’attività in proprio fino a quando non avesse conseguito personalità giuridica. Trascorso il tempo necessario, il praticante presentava al Console l’attestato del suo tirocinio rilasciato dal Maestro, e sottoposto a esami tecnici di abilitazione, molto severi, che prevedevano anche lo svolgimento di più opere, di più lavori (il giudizio negativo era inappellabile), se ritenuto abile, veniva dichiarato maestro. Una volta superato l’esame di abilitazione al “maestrato” l’operaio, raggiunta la sua aspirazione, aveva l’obbligo di corrispondere le tasse al Consolato (10 tarì per i muratori, 6 onze per i forgiatori …), dimostrare la propria gratitudine ai colleghi e alla Cappella (4), non dipendeva più dal maestro, ma soltanto dal Console: poteva aprire bottega propria o associarsi con altro maestro, poteva votare nell’ambito del proprio sodalizio. Inoltre, ottenuta la sicurezza che la corporazione avrebbe soccorso lui, in caso di malattia o di infortunio e avrebbe assistito la famiglia in caso di morte, aveva l’obbligo dell’osservanza dei propri doveri di moralità, di religione, di fratellanza. Con l’abilitazione assumeva l’obbligo di non tenere più di due apprendisti (garzoni) nella bottega, di non togliere la clientela agli altri maestri (vendendo la merce per le strade), di rispettare i Capitoli, di non disobbedire al Console, insomma di sostenere il decoro della corporazione.
Coloro che aspiravano a diventare maestri avevano l’obbligo legale di svolgere il “garzonato” (praticantato) presso un maestro, il quale lo istruiva in bottega e lo ospitava in casa propria, ove veniva sfruttato, quasi fosse uno schiavo, per lo svolgimento di qualsiasi tipo di servizio. Spesso il maestro, approfittandosi delle condizioni e degli obblighi di questi apprendisti, (denominati “picciotti”) li maltrattava, e anche al fine di prolungare il loro soggiorno (senza corrispettivo) in casa propria, insegnava loro ben poco e li adibiva ai lavori più umili, tanto che molti poveri picciotti sfruttati si rivolgevano all’autorità per essere sciolti dall’obbligo assunto con il loro padrone o per cambiare padrone. Si ha notizia di scontri e sassaiole tra picciotti di alcuni mestieri (particolarmente tra argentieri e conciatori) che si svolgevano, in giorni prestabiliti, fuori dalle mura cittadine a bandiere spiegate (5). Tuttavia con i privilegi, le protezioni e l’intervento dei potenti si riuscivano a mitigare e a superare tutti i divieti alle proibizioni. L’esercizio di un arte, di un mestiere, di commercio era monopolizzato sotto il nome di zagatu (6). La distanza tra due botteghe che svolgevano il medesimo commercio, o la medesima attività, non poteva essere inferiore ai quaranta palmi, misurata dalla bancata di un esercizio a quella della bancata della bottega vicina. Tuttavia si agiva in tutte le maniere per raggirare ed eludere le disposizioni e i regolamenti, e tali manovre tendenti a superare le disposizioni regolamentari, invogliavano altri a tentare la medesima o altre analoghe strade. E, a proposito dell’intervento delle compagnie religiose nella preparazione delle Maestranze: occorre dire che ogni maestranza aveva il suo santo protettore. I sarti Santa Oliva, i parrucchieri Santa Maria Maddalena, i calzolai San Crispino, i falegnami San Giuseppe …. Il giorno della festa padronale, i maestri si riunivano nella cappella per assistere alla messa e alle funzioni ecclesiastiche e per portare in processione il santo (7), ma si riunivano anche per la discussione delle loro problematiche, per il rinnovo delle cariche e per tutti gli altri argomenti che riguardavano la parte secolare del loro sodalizio.Ogni anno, a mezz’agosto, tutte le maestranze, con grande solennità, partecipavano alla Festa dell’Assunta. Ogni Maestranza portava il cero da offrire alla Vergine. I membri, in giamberga (vestito da cerimonia) e spadino (8) al fianco, prendevano parte alla processione, nell’ordine e nel sito che veniva loro comunicato, qualche giorno prima, in un ruolo a stampa (9). Il Vicerè Caracciolo (10) vide sempre di cattivo occhio tali congreghe e non perse mai ogni occasione buona per romperne la compagine. Nella processione di mezz’agosto, durante la quale si portavano i ceri alla Vergine, approfittando di un litigio sorto tra due maestranze che si concluse con l’uccisione del maestro dei gallinai, il Vicerè non perse tempo: decretò l’abolizione dello spadino per gli artigiani e la graduale soppressione dei vari collegi di arti e mestieri, iniziando da quello dei macinatori, e seguendo, subito dopo, con quello dei Lombardi (11), con quello dei “bordonari”(12) e con quello dei cocchieri . Nel 1786, anche se il Caracciolo aveva lasciato la reggenza, il suo successore, John Acton, continuò inesorabilmente nell’opera di soppressione iniziato dal suo predecessore, e non soltanto perché condividesse le idee riformatrici di quest’ultimo e della Corte di Napoli, ma sopra tutto perché queste organizzazioni erano divenute troppo pretestuose e prepotenti. Così le maestranze si ridussero a cinquantanove, suddivise in due categorie, quella che, composta di quindici strutture, si occupava della vendita dei commestibili (macellai, pescivendoli, bottegai, pizzicagnoli, pasticcieri, tavernieri, ) dipendente direttamente dal Senato, l’altra composta di quarantaquattro strutture,per le arti meccaniche, che era soggetta a una commissione governativa. Tutti i privilegi preesistente vennero aboliti, le vertenze vennero trasferite alla magistratura ordinaria. D’altro canto le maestranze erano oberate da imponenti tasse obbligatorie, da altri oneri come quelli per la partecipazione alle costosissime solennità religiose, non ricompensate dagli utili. C’erano, poi, le vertenze relative a determinati lavoratori che erano riuniti con altri i quali avevano attività e interessi diversi e tenevano a distaccarsi, come i fontanieri (maestri d’acqua) litigavano con i muratori, lo stesso succedeva tra gli intagliatori e gli scalpellini, tra i semolai e i vermicellai (13), tra i “paratori di chiesa” (14) e i fioristi. Altri, come i pescatori, si divisero in rioni (Kalsa, S. Pietro e Borgo), rivaleggiando tra di loro e litigando per problemi di precedenze, o come i misuratori, i quali in seguito all’abolizione del loro collegio, si videro intimare il divieto di privativa del loro mestiere. Si rimpiangeva i preesistenti privilegi abrogati, come quello (di Filippo III) che concedeva alle maestranze il privilegio di liberare ogni anno un condannato a morte. Le Maestranze avevano fatto il loro tempo, ormai avevano perduto tutti i loro privilegi e le loro funzioni, non potevano più portare armi, non potevano più difendere la Città, non avevano più la forza di rivendicare i diritti perduti, la osservanza dei loro monopoli, le imposizioni obbligatorie di contributi per feste e altro. Malgrado ciò, avvalendosi soprattutto della loro presenza numerica, tentarono di ricostituirsi, richiedendo riconoscimenti ufficiali. La loro azione continuò a svolgersi sotto il controllo e l’alto patrocinio del Senato: il Pretore continuò a qualificarli “onorati uomini”, e ove non potevano o non volevano riorganizzarsi sotto forma di collegi, si riordinavano altrimenti. Gli orafi e gli argentieri si ricompattarono in compagnie, altri vennero riconosciuti sotto la veste di confraternite (di S.Filippo di Argirò, dell’Ecce Homo). Il 26 dicembre 1798, quando il Re e la Regina fuggirono da Napoli e si rifugiarono a Palermo (15) le Maestranze, senza armi, ma con le coccarde cremisi sul cappello, i loro ufficiali in uniformi turchine e rosse, si schierarono lungo il percorso (via Toledo o Cassaro, poi corso Vittorio Emanuele e via Maqueda) dei Reali che ne rimasero compiaciuti. Continuarono a sopravvivere fino al 13 marzo 1822 quando per decreto di Francesco I° delle Due Sicilie vennero definitivamente sciolte.
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- Francesco Maria Emanuele Gaetani, m.se di Villabianca (1740-1802), Senatore, Commissario generale del Regno di Sicilia, governatore della Compagnia della Carità e del Monte di Pietà, fu uno storico Palermitano autore tra l’altro del “Diario Storico palermitano”, del “Opuscoli palermitani”;
- definiti anche i “vocali” cioè quelli che avevano “voce” – diritto di voto;
- definito, da Giuseppe Pitrè, con il neologismo “lavorantado”;
- il “principio religioso”, senza il quale – secondo il G. Beccaria – le Corporazioni non avrebbero avuto ragione di esistere, secondo la opinione che ammetteva che le Maestranze avevano avuto preparazione nelle compagnie religiose, dette di “disciplina” ed essere state “una specializzazione, una trasformazione civile di esse; onde i capitoli di alcune compagnie, erano considerati il substrato degli statuti di alcune corporazioni.”,
- il Villabianca, nel suo Diario, accenna ad una sassaiola, avvenuta nel gennaio 1776 che provocò gravi danni a persone e a cose, e si concluse con l’intervento del Vicerè, del Capitano Giustiziere e del Senato, i quali individuati i colpevoli (tutti giovanissimi) li fecero punire, giusta la loro tenera età con la frusta manovrata, non dal boia, ma da un commissario.
- zagatu era la denominazione complessiva del vettovagliamento e di quanto lo garantiva e lo disciplinava dal punto di vista annonario e fiscale. Con lo stesso termine si identificava anche la rivendita al minuto di salumi, formaggi e altri generi da pizzicagnolo;
- nella cappella era evidente lo sdoppiamento della associazione: infatti si compievano le pratiche religiose e si tutelavano gli interessi sociali, economici e amministrativi della maestranza separatamene (anche se, qualche volta, con la collaborazione del cappellano), si trattavano gli affari, gli esami degli aspiranti al maestrato, le elezioni, si decidevano le sorti degli artigiani della maestranza, ma si seppellivano anche i morti restando così in tacita comunione anche nell’altra vita.
- pare che fosse un abuso, infatti poi venne abolito per ordine del Vicerè.
- è arduo trovare la ragione e l’origine del protocollo.
- Domenico Caracciolo marchese di Villamaina (1715-1789) fu un diplomatico e un uomo politico del Regno di Napoli. Di famiglia partenopea, nacque in Spagna (il padre era ufficiale dell’esercito spagnolo), fu magistrato e poi fu rappresentante diplomatico del Regno di Napoli, in molte capitali europee. Durante il suo soggiorno a Parigi ebbe contatti con gli ambienti illuministi, che lo portarono, quando accettò la carica di Vicerè in Sicilia, ad assumere un atteggiamento riformista impegnato a risvegliare le energie e a favorire il rinnovamento del Regno, tanto che – con un certo successo – si schierò, apertamente, contro i privilegi dell’aristocrazia e del clero. A lui si deve, tra l’altro, la costruzione della prima strada che congiunse Palermo con Messina.
- il collegio dei Lombardi comprendeva coloro che venivano (in buona parte dalla Lombardia) a Palermo per vendere le “grasce”, così definite qualsiasi genere di vettovaglie, (carne, pesce, salumi, ecc.);
- i bordonari erano i dipendenti delle aziende agricole addetti ai trasporti a dorso di mulo;
- i semolai e i vermicellai erano rispettivamente “gli addetti al controllo dei processi di macinazione del grano” e “i fabbricanti di paste alimentari” i quali invocavano certi diritti di preferenza loro contrastati. La pasta alimentare, già, a quell’epoca, sotto forma di pasta secca, che poteva essere conservata e quindi facilmente trasportabile, veniva prodotta particolarmente in Sicilia, da dove veniva poi esportata in quasi tutti i paesi del bacino del mediterraneo. Dopo la “scoperta” del pomodoro nelle Americhe e la importazione, prima, e la coltivazione, dopo, dello stesso in Europa e la “invenzione” della “salsa di pomodoro”, si incominciò a condirla con la salsa, … insomma la pasta asciutta da alimento, assunse il ruolo di elemento di integrazione della vita e della cultura popolare“… Su questo argomento non si può fare a meno di accennare a una “grande verità”, contenuta nelle parole dello scritture Cesare Marchi (1922-1992), a proposito della pasta asciutta, “… quando scocca l’ora di pranzo, seduti avanti a un piatto di spaghetti, gli abitanti della Penisola si riconoscono italiani ….!”;
- era una piccola squadra addetta alla vestizione e paratura delle chiese con drappi, addobbi, fiori e arredi sacri, nel rispetto del periodo liturgico e per le manifestazioni religiose che si tenevano nei luoghi di culto;
- i palermitani tributarono ai loro Re Ferdinando III (di Sicilia e IV di Napoli) e Regina Maria Carolina, che mai avevano avuto occasione di vedere e riconoscere, manifestazioni di affetto. Vale la pena ricordare che fecero dono al Re, un enorme (circa 400 ettari) appezzamento di terreno, che prese la denominazione di “Real Parco della Favorita” (pare che sia stato in parte donato dai proprietari e parte espropriato). Il Parco comprendeva la Piana dei Colli, il pantano di Mondello, la contrada Pallavicino fino alle falde di Monte Pellegrino (per gli antichi “Monte Ercto”). I “buoni sudditi palermitani”, nell’intento di manifestare il proprio affetto ai propri Monarchi, esuli da Napoli, vollero che il Re fosse in condizione di continuare a esercitare la sua attività preferita – la caccia – e denominarono la tenuta con il nome “La Favorita”, per omonimia con la Reggia di Portici, a lui familiare, per attenuare la nostalgia del Re per quel luogo a lui molto caro. Tra il 1798 e il 1802, entro tale Parco, venne costruita, su progetto dell’architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia e del di lui figlio Alessandro Emmanuele e con la collaborazione del capomastro Giuseppe Patricolo la “Casina Cinese” poi denominata “Palazzina Cinese”. Giuseppe Venanzio Marvuglia (Palermo 1729-1814) fu uno dei massimi architetti italiani di quell’epoca, architetto del Senato, insegnò alla Università di Palermo, rappresentò il momento di passaggio tra il tardo barocco e il neoclassicismo europeo, (oltre alla Casetta Cinese, progettò, tra l’altro, Villa Notarbartolo a Bagheria, villa Belmonte all’Acquasanta, palazzo Notarbartolo ai Quattro Canti di Campagna), fu maestro di Nicolò Puglia (Ucciardone, Teatro Bellini), di Domenico Marabitti (orto botanico), del figlio Alessandro Emmanuele (che collaborò col padre alla progettazione e alla realizzazione di molte delle sue opere) e dell’architetto Emmanuele Palazzotto (entro il cui archivio sono conservati i suoi lavori). Giuseppe Patricolo (1754-1828) era il “capomastro della Real Casa Borbonica”, che godette di particolare stima da parte del Re, il quale (il 25 febbraio 1824) gli chiese un parere per iscritto circa la demolizione di Porta Nuova, proposta dall’ing. Speranza. Egli non solo diede parere negativo ma sollecitò un recupero strutturale e decorativo del monumento che, salvato dalla demolizione, in seguito venne restaurato col contributo del figlio S