NUMEROSI ED EFFERATI
Racconto di Giuseppe Pippo Visconti
Giù! Giù per le antiche scale
Pomeriggio. Abbastanza presto. Controllo numero tre. Chiodi, martelletto, filo di nylon, torcia elettrica, forbicine salvadito: cose di piccolo formato che spariscono in tasca e che risulterebbero innocenti anche dopo una perquisizione del KGB, buonanima. Ventidue euro spesi in cambio degli ottocentonovantamila approssimati per difetto che erediterò: mi prendereste per un ottimista, se vi dicessi che si tratta di un buon investimento? Non per giustificare quello che sto per fare, ma vi sembra dignitoso per un conte, cinquantun anni il mese scorso, mantenersi e neanche tanto dignitosamente con la paghetta settimanale della zia? Lei va dicendo che sono uno spendaccione, che il vizio del giuoco mi divora e che finirei per rovinare me stesso con tutta la casata appresso. Esagera! Ho solo qualche debituccio, magari sono gli interessi che non mi fanno dormire. Ma torniamo al mio diabolico piano, che definirei geniale se la modestia non frenasse la mia penna. Se è vero che ogni grande idea comincia con un semplice pensiero, è ancor più vero che per realizzare un piano astuto occorre studiare bene il territorio e annotare ogni notizia. Per esempio, sapere che la contessa zia, nata nel ’21, ma ancora tanto arzilla da salirsene in soffitta tutti i lunedì alle diciassette per ridiscenderne tre quarti d’ora dopo, è o non è una preziosa informazione? Ma sì, anzi aggiungerei che è fondamentale! Dall’idea che mi son fatta da certe mie frequentazioni letterarie che frugano sadicamente dentro storie di crimini e assassini, il momento più rischioso per il sottoscritto dovrebbe risultare quello del martellamento. A quell’ora del pomeriggio in casa regnano il silenzio e la penombra, per cui dovrò fare pochissimo rumore, possibilmente nessun rumore affatto: sarebbe imperdonabile, sarebbe grottesco, farsi trovare inginocchiato e con la torcia in bocca, a piantar chiodi da sette, a testa piana – non svasata per carità, presi a un euro e venticinque la scatola, un vero affarone – ai due lati del primo dei gradini che dal piano notte discendono verso il pian terreno. Ma sono abbastanza fiducioso che il martelletto in gomma svolgerà benissimo lo scopo per cui è stato concepito: ho fatto le prove tutta la mattina rinchiuso all’interno del mio armadio di rovere antico; d’accordo, stavo impazzendo lì dentro per il fracasso e per il caldo, ma quel che conta è che nessuno se n’è accorto! In quanto al rovere, l’avrò sì un pochino rovinato, ma dopo, e dico dopo, baratterò tutte queste sue antiche suppellettili con modernissime creazioni con cui arrederò la mia villa. Tendere tra i due chiodi il filo da 0,30 alla giusta altezza e per tutta la lunghezza del gradino è un giuoco da bambini: con l’aiuto della torcia basta fare frrrr, due giri su uno, e frrrr, due giri sull’altro. Il resto lo farà la forza di gravità: e la giustizia, almeno quella terrena, farà il suo corso. Credetemi, alla fine si tratta soltanto di anticipare un evento naturale, di dare una mano alla divina provvidenza che sembra essersi dimenticata di questa esagerata longevità della mia parente. I gradini della rampa sono tredici e dovrebbero bastare, ma per sicurezza ho provveduto ad allentare le viti della ringhiera, in modo che a fine corsa il precipitante, in questo caso la precipitante, possa prolungare la caduta di altri sei metri in verticale, fino al piano sottostante. Sono abbastanza fiducioso. E’ che non voglio correre il rischio che rimanga solo paralizzata ma sempre viva e comunque intestataria; io non sono un sadico, le mie sono azioni dettate dal puro interesse. Come quella sera che lasciai il gas aperto, uscendo con la scusa di un convegno di giallisti. Non avevo fatto i conti con l’insonnia della sua cameriera personale, che accorse e salvò tutto quel piccolo mondo antico, rimediando alla mia proverbiale distrazione. Suppongo che lo abbia fatto anche lei per interesse! O come quando, di ritorno da una gita, fermai l’auto venti metri prima di un tornante, o precisamente venti metri prima di uno spettacolare strapiombo, e scesi con la scusa di dover fare pipì, lasciando la zia immersa nella sesta rilettura di lady Chatterley e del suo amante – ma zia, non i romanzi di Liala? – dimenticando di azionare il freno a mano e fiducioso che con una lieve spinta la macchina potesse scivolare verso un perpetuo baratro. Scivolò invece dolcemente verso una piazzuola laterale, e lì si fermò contro un roseto spontaneo: alzando gli occhi dal libro la zia restò sorpresa dalla gente accorsa che guardava lei come una miracolata e me come un pericoloso irresponsabile. Un anziano, elegante signore dal sorriso mieloso si spinse fino a donarle una rosa che era finita contro il parabrezza, mentre mi guardava storto come se avesse l’intenzione di sfidarmi a duello. Amarissimi ricordi, da cui mi distolgo per tornare al piano attuale. Dunque, al tonfo sordo che seguirà il parentale ruzzolio io uscirò di corsa dalla mia stanza, la più vicina alla scala monumentale, per recuperare con le pinze i chiodi e quel che resta della lenza: –avete notato che ho pensato proprio a tutto? – non vorrei che qualche novello Sherlock Holmes si facesse, o peggio, mi facesse troppe domande.
Pomeriggio. Sul tardi.
Strano, nessuno è venuto a chiamarmi, eppure avevo detto a tutti che in caso di necessità sarei stato reperibile in biblioteca. L’avevo raggiunta, dopo aver rimosso i corpi di reato dalla scena del delitto, usando la scala esterna, ben lontana dai locali della servitù così impicciona. Devo ammettere che è stata dura resistere all’impulso di scendere e soccorrere quel che rimaneva della mia parente stretta, a me comunque così cara. Ma è ormai tempo di recarsi in sala per la cena: mi comporterò come se non mi aspettassi di trovare nulla di diverso dal solito tran tran. Oggi è lunedì, quindi è la sala azzurra che dovrei trovare apparecchiata.
– Buonasera Norberto, come sempre sei in ritardo! Perché mi guardi così? Non sono mica un fantasma!
E’ incredibile come la vittima, seppur inconsciamente, in qualche modo riesca a far sentire un accusato il suo assassino, anche se mancato! Ma allora chi è caduto? Dal tonfo che ho sentito mi è sembrato qualcosa di abbastanza grosso!
– Ma no, perché dici questo cara zietta? Mi sarò compenetrato troppo col Dracula di Stoker, di cui sto leggendo la versione originale. – intanto mi chino e la bacio con affetto sulla guancia, come faccio sempre anche a colazione e poi ancora prima di andare a letto.
Sbircio la sua pallida gola indifesa, ma non sono un vampiro, perciò ho escluso da tempo la sua fine per dissanguamento.
– Sai che è successo un guaio oggi pomeriggio sulle scale?
– Cosa dici zia Evelina, non so nulla. Sai bene quanto la biblioteca sia distante.
– E’ ruzzolato il gatto Ciccio. Sai che mi segue dappertutto, ma questa volta è andato per suo conto, ed è caduto dalle scale. Cosa strana, mai sentito di un gatto che cade dalle scale, che tra l’altro conosce a menadito, e poi la penombra a lui fa un baffo!
– Infatti stento a crederci, è davvero singolare! Ma perché nessuno è venuto ad avvertirmi?
– Nessuno è venuto a chiamarti perché l’ho chiesto io già da tempo: so quanto sei impressionabile.
L’avrebbero di certo fatto se fossi stata io a precipitare, ma si vede che la mia ora non è ancora giunta. Per fortuna niente di rotto, sai bene che i gatti hanno sette vite. Piuttosto, allarmata dal rumore sono ridiscesa dal solaio, e ho avuto l’impressione che qualcuno lasciasse in fretta il primo piano, uscendo poi dalla scala di servizio. Tu hai visto qualche cosa?
Avrà quasi cent’anni ma ci sente molto bene! Per fortuna la sua vista non è altrettanto acuta. E poi quella parola: ha usato “precipitare” come se avesse letto il mio pensiero.
– Ma no zia cara, cosa ti fa pensare che potrei saperne qualche cosa? Stavo leggendo, come ti ho detto, e forse in quel momento il figlio di Dracul si stava spazzolando i denti dopo una bevuta!
– Che spirito macabro, Norberto. Mi chiedo da chi tu possa averlo preso! Ma forse è tutta colpa di quelle sciocche riviste che leggi, invece di studiare seriamente e pensare al tuo futuro!
A questo punto non oso più ribattere; ne uscirei sconfitto, come sempre con lei, come sempre con gli argomenti seri. Oltre non parliamo più, come tutte le altre sere della nostra vita insieme: una strana coppia, messa insieme da curiosi incroci del destino. A fine cena l’accompagno in camera sua; vuole ancora desinare a pian terreno e dormire di sopra, al primo piano: dice che questo l’allontana dalla morte! Si appoggia al mio braccio, la sostengo con amore, e le sussurro di fare piano, senza fretta:
– Chè oggi queste scale non mi ispirano per niente.
Ampere
Ci riprovo.
Per succedere a mia zia, ho pensato di ricorrere alla corrente elettrica. Ho cercato aiuto in rete e qualcosa l’ho trovata per la nostra impresa. Dunque, ecco di seguito cosa ho rintracciato:
Si prende la scossa se si tocca un filo elettrico scoperto o si inserisce un dito nella presa!
Ah!
In genere si prova un acuto dolore, ma in alcuni casi la scossa elettrica può essere letale.
Ah!
Se si prende la scossa mentre non si indossano le scarpe il passaggio di corrente è più veloce;
e aumenta ancora se i piedi sono bagnati, in quanto l’acqua è un ottimo conduttore.
Oooh, finalmente una notizia utile! L’acqua, fonte di vita, ci salverà, regalandoci una veloce, possibilmente non troppo dolorosa, ma irrimediabile e definitiva morte. L’obiettivo adesso è quello di dare appuntamento alla zia, all’acqua e alla corrente elettrica nello stesso luogo e nello stesso istante. Acqua… piedi bagnati. Solo in un posto abbiamo questa combinazione: nella vasca della sala da bagno della zia. Ah, se solo potessi dirglielo: una volta tanto mi farebbe i complimenti per la mia intelligenza. Zia Evelina il bagno non lo fa tutti i giorni, dice che l’acqua indebolisce il corpo. I due momenti eletti sono la domenica mattina prima di andare a messa, e il mercoledì, equidistante sera, per conciliare il sonno. Come al solito ho fatto un sopralluogo. Ed eccola lì: subito l’ho vista! Appena entrato nel locale ho capito immediatamente che quella era la maniglia della mia salvezza: proprio domenica, mentre la zia era a messa – lei non ci va con me, dice che sono un miscredente – apro la porta e la vedo lì: bella, lucida, massiccia, ben piantata alla parete piastrellata in grigio azzurro e orchidee rosso vermiglio. A ben guardare i fiori sono schizzi di sangue sparsi e ormai rappresi: un pessimo, macabro gusto! La maniglia di sostegno usata dalla mia parente per issarsi dalle acque – e pazienza, non siamo tutti Veneri sorgenti da conchiglia – è fissata alla parete che si innalza a lato della vasca. Per renderla più sicura ricordo che i perni usati erano lunghi e sporgevano dall’altro lato del muro, dentro uno sgabuzzino. E infatti eccoli lì, ricordavo bene. Imbullonati per i secoli dei secoli e rafforzati da una placca in rame massiccio, gran conduttore, che mi condurrà verso la felicità. Ci vuole fortuna nella vita, e io che son giocatore lo so bene, e benedico quindi mastro Gesualdo, che meriterebbe anche il titolo di “don”, perché non solo ha escogitato questo incastro solidissimo, ma ha anche predisposto una presa di corrente dentro il camerino.
– Non si sa mai – disse quando finì di montarla – a qualcuno, un giorno, potrebbe anche servire!
Come ci hai visto lungo, caro don Gesualdo! Quello che mi dispiace è non poterti ringraziare in nessun modo; te ne sei andato un giorno, verso mezzodì, precipitando da un tetto che stavi sistemando insieme a quel nipote che alla fine ha ereditato tutto. Siete dei malpensanti! Ma non bisognerebbe esserlo sempre: qualche incidente non fasullo capiterà pure ogni tanto. Allora cosa scelgo? La frizzante domenica mattina o la dolce sera del mercoledì? No, il mercoledì c’è la Champions: vada per la domenica. Oltretutto sarebbe anche rischioso con acqua e corrente elettrica così promiscui, al buio e in tanti, tra cui pure il sottoscritto, a dover fare irruzione nella stanza. Banale, facile, addirittura antisportivo, collegare la presa ai perni di sostegno che porteranno quel po’ po’ di ampere attraverso il muro fino alla maniglia, per passare poi dalle sue mani e dai suoi organi vitali, per scaricarsi infine nell’acqua della vasca. Domani, direi nel pomeriggio, mi recherò in quel fornitissimo negozio di materiale elettrico; è lontanissimo da casa e nessuno mi conosce o mi ha mai visto: non vorrei che si materializzasse un altro Sherlock Holmes, a caccia di scontrini o ricevute dal dettaglio troppo chiaro.
Domenica mattina
Era il giorno decisivo, stabilito ormai da qualche tempo. E infatti la notte fu agitata: mi sono svegliato di continuo, in realtà è solo ogni tanto che mi sono addormentato, e mai del tutto, direi che ho mantenuto una sonnolenza vigile in attesa che albeggiasse. Poi ho desistito, alle cinque ho rotto gli indugi e mi sono alzato, ma ho fatto solo un metro, un metro e mezzo, fino alla poltroncina a dondolo che c’è accanto alla finestra bassa: dalle persiane non del tutto accostate, dalle scalette schiuse, la luce filtrava pallida, discreta, ma col passare dei minuti sempre più vivace, riflessa com’era dalla superficie del mare, piatta, argentea, infinita come sempre; poche barche, distanti tra di loro, a trapuntarla un poco; un battello che la solcava lento lasciò una scia che rimase a lungo; a un centimetro dall’orizzonte, spedita, passò la prima nave che mezz’ora dopo sarebbe entrata in porto. Dondolandomi mi sono addormentato, vinto dalle oscillazioni e dalla luce frantumata dalle stecche inclinate dell’infisso: incredibilmente, dopo una notte in bianco, rischiai di far tardi per la fase conclusiva dell’inganno. Un quarto alle sette segnava il mio orologio: avrei fatto in tempo? Camminai svelto fino al corridoio, vidi le sue ciabatte da camera davanti alla porta del bagno, dove poi indossa quelle da toilette, segno che la zia era ancora dentro. Lei è molto metodica, come tutte le persone in questa casa, me compreso. La domenica mattina è tutta un susseguirsi di eventi ben scanditi: alle sei e mezzo entra in bagno, alle sette e cinque ne esce in accappatoio per tornare in camera sua, e alle sette e trentacinque, sottobraccio alla governante, sale in auto e va in chiesa, accompagnata dall’autista, per la messa delle otto. Passai davanti alla porta e mi fermai: fermai anche il respiro: sentii lo scorrere dell’acqua nella vasca. Entrai nel camerino, chiusi la porta alle mie spalle. Accesi la luce. Da un cassetto tirai fuori la spina con prolunga e pinza che avevo confezionato prima. Fissai la fase sulla piastra in rame. Spensi la luce, uscii e tornai indietro; tremavo per la tensione, sprofondai nella poltrona della stanza da cui partiva il corridoio. L’accappatoio di mia zia è rosso, rosso cardinale, di spugna fine, e vederla riapparire, fresca e impunita, e impunibile come ormai credo che sia, con quel colore addosso, mi ha convinto che lei sia immortale, e che quell’accappatoio, che quel colore, siano un avvertimento, anzi un ultimatum non so quanto inconscio, che mi intima di finirla con queste penose e stupide imboscate. Mi ha sorriso e preteso un bacio, entrambi ignari che sarebbe stato l’ultimo, passandomi accanto per andare in camera sua. Le ho dato un minuto, un minuto in cui la rabbia mi è montata dentro, poi furioso corsi ed entrai in bagno: la vasca era quasi vuota, tranne la schiuma biancastra rimasta al fondo, in attesa di venir lavata via da una cameriera. Ci son saltato dentro senza le ciabatte, ho afferrato la maniglia, deciso a farla finita e … nulla! Non è successo nulla, niente, neanche il minimo formicolio alle dita delle mani o a quelle dei piedi. Ma allora la fisica, la conducibilità, gli ampere? Ed eccoli, per quanto io possa ricordare, i successivi fatti: uscii di corsa dal bagno scivolando platealmente in corridoio; aprii, macché aprii, spalancai la porta dello sgabuzzino, accesi la luce, afferrai a due mani la pinza agganciata alla piastra e … morii! Morii in un niente, com’è logico morire – voi ben lo sapete ormai! – per una forte scossa con i piedi anche solo un po’ bagnati. Ricordo un bruciore fortissimo alle mani e una fitta in mezzo agli occhi, poi una sorta di esplosione tra gli alluci e i mignoli dei piedi e infine un sinistro, feroce, brevissimo dolore al petto. Dopo quello finì ogni cosa: nessun tempo che si potesse misurare con gli orologi della terra, nessuna parola che si potesse ancora dire, nessun titolo di coda su drappeggi musicali: e tutto questo per l’eternità! O almeno per mezz’ora, come poi in effetti fu. Qualcuno venne a prendermi e mi condusse per mano come si fa con i bambini, informandomi di quello che ignoravo. Nel trambusto che seguì la zia si sentì male, fu ricoverata e morì di crepacuore nel giro di qualche ora: sarà stato il dispiacere della mia elettrizzante dipartita o il dolore nel vedere quello che avevo organizzato? O ancora, come preferirei stupidamente, il rimorso per non avere compreso le giuste aspirazioni di un rampollo ultra cinquantenne? La mia grande pena è che la sua scomparsa è una beffa del destino: s uperfluamente morta dopo che io son morto, inutilmente morta per i miei disegni infami e beffardamente morta, infine, per cagion mia. Mentre attendo in una sala enorme, insieme a tantissimi altri morti, non so che cosa e non so il perché – ma di lei non scorgo traccia – un tizio con l’aria da ingegnere, col pizzetto e con gli occhiali, mi va spiegando, tra educati sorrisi che a me arrivano decisamente ironici, che la maniglia era isolata dalla porcellana. Spiega che è un’accortezza che si usa in ambienti quali il bagno, e questo mastro Gesualdo, al quale non mi va più di anteporre il don ma gran cornuto invece sì, lo sapeva per mestiere. E mi rivela, cosa che mai mi sarei aspettato, che il salvavita che poteva salvarmi non scattò perché Gesualdo, il fu mastro, l’ex don, si distrasse nel seguire l’allusiva traiettoria di un fazzoletto fatto scivolare dalla mano esangue della contessa zia, qualche anno prima, nel pomeriggio di un piovoso lunedì. L’ironico occhialuto, senza che nessuno lo incoraggi, aggiunge che l’artigiano fu felice, molto felice; anzi postilla addirittura che lo furono entrambi per molti altri lunedì, e per molti anni, ma che a collegare il salvavita, purtroppo per il sottoscritto, nessuno pensò più.