ANCORA SI ALZA IL SIPARIO
A Siracusa 2019
(Carmelo Fucarino
Anzi, mai si è alzato sulla a noi ignota struttura della scena (skené, “tenda”), alle origini e da allora, quando nel 476 a.C. Eschilo venne a celebrare a Siracusa con le Etnee la fondazione di Etna e vi presentò anche I Persiani, encomio della vittoria di Atene alla primitiva invasione da Oriente (recenti i Turchi musulmani e ora i boat-men), in quell’eterno scontro delle eponime Europa e Asia. Chiamato da Ierone, ma forse furibondo per le preferenze accordate dagli Ateniesi al filoateniese Sofocle qui sarebbe morto e sepolto, con il capo fracassato da una tartaruga lanciata da un gipeto. Dell’antico teatro (da theaomai, “osservo”), resta il koilon (“concavo”, la latina cavea), modellato nell’arenaria della collina, permangono i ruderi degli sberciati e sdruciti gradini, divisi in fasce orizzontali e in spicchi a cuneo (kerkides), che dividono ancora i settori, il tutto ingabbiato e rubato da un misero ed osceno tavolato. Della scena nulla è rimasto, neppure le innovazioni architettoniche ellenistiche e romane, come i ruderi di Taormina, di Pompei o Ierapoli. Nulla del fondale del proscenio, prospetto di una reggia a tre uscite, con gli avamposti laterali (parasceni), e del logheion, sul quale recitavano gli attori. Lo spazio circolare sottostante, con al centro la thumele di Dioniso Eleuterios (“della libertà”), era l’”orchestra” (da orcheomai, “danzo”), ove i coreuti, danzatori e cantanti (12 e poi 15 con Sofocle), entrando dai due ambulacri laterali coperti (pàrodoi), intonavano su ritmi diversi la parodo (“entrata”), in scattanti anapesti in figura di marcia, gli stasimi (“canti a fermo”) e l’esodo, talvolta il kommos intercalato con gli attori, prima che questi due (tre con Sofocle) si presentassero con maschere e coturni e precisassero il luogo dell’azione e interpretassero notissimi e triti miti dei cicli più ricorrenti, il troiano, il tebano e l’eracleo, negli intercalati episodi (talvolta preceduti da un prologo). Era la genialità del tragediografo a saperli fare risuscitare, dare veste artistica, spesso rielaborandoli, secondo Aristotele, a fini catartici. Oggi coro e attori si sparpagliano su questo spazio a loro improprio davanti a improbabili e fantasiose architetture sceniche, provenienti da retro, mentre rimangono semplici caverne nella roccia le due entrate laterali. Certo, lo sfondo è oggi un suggestivo sipario di cipressi, ove al primo sbiadire del cielo esercitano le ugole gufi o tortore in ritardo. Oppure lacerano la sacralità del luogo assordanti sirene. Eppure ancora oggi in primavera (nelle antiche Dionisie ateniesi nel mese di Elafebolione, tra marzo e aprile, in sette giorni), si rinnova il rito moderno, ora annuale, che conserva il suo fascino (nel valore del latino fascinum), quell’arcana malia di un mondo che, nonostante gli azzardati e ardimentosi moderni allestimenti scenici e iconografici, ripete la voce eterna dell’uomo, la sua esistenza pressata da infiniti dei che sopravvivono nel bene e nel male, la gioia di un’alba e il sussulto di un tramonto, la ferocia ancestrale di una società stravolta e di un uomo inselvatichito (mentre i cani si antropizzano). Così ci assillano ancora le Erinni, così si ripete il dramma del potere e della condanna dell’uomo al fratricidio. E questo punto cruciale della ferocia umana hanno voluto rievocare il consiglio dell’Inda, oggi che le guerre camuffate delle supremazie finanziarie globali, dirompenti per vittime quanto le guerre infinite che continuano a incendiare tante regioni, taciute e ignorate, talvolta fomentate e sovvenzionate dalle cosiddette nazioni civili, le mistificate democrazie dei plutocrati padroni del popolo bue, ammaliato dall’inganno subdolo dei social. Sono il grido e l’angoscia di donne, regine e suddite di una terra sconfitta, la rinomata guerra di Troia, osservata e pianta dalla parte dei vinti, la stessa guerra vista come una finzione. L’autore unico cantore del dramma della guerra, lui che visse il dramma della fase archidamica, della peste del 430 a.C. ad Atene e la disfatta micidiale a Siracusa, un esercito in fuga trucidato o richiuso nelle Latomie. Siamo nel 415 a.C. quando Euripide presenta la tetralogia, con Alessandro (figlio di Priamo, esposto sull’Ida), il Palamede, saggio e vittima delle astuzie di Odisseo, e infine le Troiane, unica pervenuta. Chiudeva il dramma satiresco Sisifo. La tragedia con originale tecnica episodica è l’angoscia delle vinte Ecuba, Cassandra, Andromaca e la causa di tutti i mali Elena, una “elegia accorata composta in forma drammatica” (Schmid), buio e tenebre sempre speranza, senza un barlume di umana bontà per il cuore di vincitori e vinti. Ma non poteva Euripide lasciare il tormento che rodeva la sua anima, fiero fustigatore della guerra, di tutte le guerre. E tre anni dopo nel 412 a.C. tornava con una tetralogia straordinaria (l’altra tragedia nota solo l’Andromeda) su un personaggio che era stato reso raramente protagonista, l’effige e metafora di tutte le cause delle guerre. Era l’accenno nell’Odissea sul nostos di Menelao e il suo soggiorno con Elena in Egitto. Ma era soprattutto la dirompente critica di un nostro grande siceliota, Stesicoro, dissacratore di miti con la sua Palinodia. Strabiliante l’incontro tra la vera Elena e il suo eidolon, l’immagine che Menelao crede di avere salvato. Come la tremenda guerra del Peloponneso e l’intervento in Sicilia con il pretesto del dissidio tra Selinunte e Segesta, le guerre secolari di tutti i tempi fino all’assassinio di Sarajevo o alle false armi chimiche di Saddam, ora sbandierata per Assad. Gli idoli, i falsi pretesti, tante guerre per una falsa immagine a giustificare le stragi e gli orrori. Allora conquiste di zone strategiche con incendi e stupri, oggi con armi più micidiali e sofisticate e con torture più orrifiche. Eppure anche Achille si era scoperto un piagnone per la morte del suo amichetto e Priamo aveva avuto l’onore del corpo del figlio. Oggi la guerra, le guerre. Come in quei tempi. Come quel Tibullo che gridava “Maledetto chi ha inventato la lancia”. Maledetto chi prospera fabbricando armi. E il canto di Euripide che brama la pace, il poeta distrutto e angosciato che non ha la forza di poetare e così innalza il suo rimpianto elegiaco e la sua speranza nello stasimo del suo Eretteo (fr- 60 A), quando Ateniesi e Spartani gustarono durante la tregua la dolcezza e il dono della pace: «Giaccia la mia lancia, perché l’ordito vi intreccino i ragni e tranquillamente a me si accompagni la canuta vecchiaia: possa io intonare canti adornato il capo canuto di corone, dopo avere appeso il tracio scudo ai talami di Atena cinti di colonne e possa svolgere la voce delle tavolette, dove han fama i sapienti». Lui che aveva vissuto per tutte quella guerra, anatomizzata da Tucidide (La guerra del Peloponneso) e il contemporaneo disastro siracusano del 413-12. La fuga: «Ma anche quando venne l’ora di sgomberare il campo, lo spettacolo s’offriva tristissimo ai partenti: e dagli occhi la pena calava a ghiacciare il cuore. I cadaveri s’ammontavano scoperti: e quando si scorgeva un proprio caro rovesciato a terra, lo spirito s’irrigidiva in un orrore umido di pianto.». La strage del fiume Asinaro e le Latomie: « «Nelle cave di pietra il trattamento imposto nei primi tempi dai Siracusani fu durissimo: a cielo aperto, stipati in folla tra le pareti a picco di quella cava angusta, in principio i detenuti patirono la sferza del sole bruciante, e della vampa che affannava il respiro. Poi, al contrario, successero le notti autunnali, fredde, che col loro trapasso di clima causavano nuovo sfinimento e più gravi malanni. Per ristrettezza di spazio si vedevano obbligati a soddisfare i propri bisogni in quello stesso fondo di cava: e con i mucchi di cadaveri che crescevano lì presso, gettati alla rinfusa l’uno sull’altro, chi dissanguato dalle piaghe, chi stroncato dagli sbalzi di stagione, chi ucciso da altre simili cause, si diffondeva un puzzo intollerabile. E li affliggeva il tormento della fame e della sete (poiché nei primi otto mesi i Siracusani gettavano loro una cotila d’acqua e due di grano come razione giornaliera a testa)» (Tucidide, VII, 75 e 87). Un giudizio sulla performance odierna a dopo. Mi chiedo perché la Lisistrata, rappresentata nel successivo 411 a.C., segue sola soletta a parte, con la sua modernissima parodia sessuale della guerra e con l’adagio, “me la gestisco io”. È altrettanto dirompente e conseguente la solitudine delle donne a casa, come la deflorazione delle vittime dei vincitori. E di questo si deve dare atto al conservatore Aristofane.