I FIORI DI LUIGI LO CASCIO
(Carmelo Fucarino)
Ho seguito la carriera di Gigi, così lo chiamavamo e così lo chiamo con qualcosa in più: ora è lui a darmi del tu. Su mia richiesta, dice lui. E’ stato più di un trentennio di frequentazione, prima come professore, gli anni del Gigi che si firmò “quello con le gambe storte” in una splendida foto di classe del 1984-1985, e poi da amante cultore della sua arte. Cominciò tutto con una prova di forte impatto civico, quella storia tragica di un giovane don Chisciotte che credeva di potere cambiare la Sicilia, immerso lui per parentela in quella melma criminosa che non tende a morire nonostante i proclami e le nuove strategie con il taglio delle radici economiche e gli espropri. Cento passi, già nel titolo esprime quel tragitto breve di una ribellione e il marcio delle istituzioni che avrebbero dovuto scoprire gli assassini e ne fecero, depistando, un crimine comune. Era il 2000 della scelta di Marco Tullio Giordana. Seguirono un film all’anno, quelli di Piccioni e Comencini e poi l’altro cult, La meglio gioventù, ancora con Giordana (2003). Il miracolo di frammenti di giovinezza, l’esplosione di un’età, che abbiamo vissuto assieme, io già più che quarantenne, giovane e ardente quanto loro diciottenni. E lo ritrovai nel film con atti e goliardie dei viaggi di istruzione, come quel sedere nudo in mostra e scandalo degli automobilisti che seguivano l’autobus. Confesso di non avere visto tutti i suoi film, qualcuno mi è sfuggito per imprevisti e vendette della vita. Ma ho seguito con più attenzione la sua attività letteraria. Perché questo romanzo Ogni ricordo un fiore (Feltrinelli 2018) è il naturale sviluppo di prove ed esperimenti di letteratura, l’avvicinarsi con circospezione e reverenza, ma a dir la verità con una certa spavalderia, a quegli autori che abbiamo amato in quegli anni di ardore e di pazzie giovanili. Primo Euripide con il suo capolavoro tra amore e pazzia, le sue postume Baccanti del 406 a.C. Il dramma della frenesia dionisiaca, la madre invasata dal dio che strazia il figlio Penteo, divenne La caccia (febbraio 2010). E fu una rivisitazione che mi fu mostrata in anteprima con i suoi dissacranti (direi non dissacratori) caroselli e una diversa impostazione strutturale. Scrissi su questo blog a riflessione sull’operazione: «Eppure in questo suo inno c’era un profondo senso del divino, quell’indiamento che sola poteva dare la mania, il travolgente pathos irrazionale. Perciò la domanda che si è posto Lo Cascio. È possibile riprendere quell’invasamento in chiave moderna, in una società scientifica e razionale di bit e digitali, ma anche di “facce” e cicalecci dei social networks (facebook e twitter), sotto l’egida delle leggi della finanza e del consumo? Lo Cascio ha smontato completamente il dramma euripideo, lo ha destrutturato e decontestualizzato. Quello che ne è rimasto è un metatesto che si regge su allusioni e richiami mentali, su autocitazioni e referenze contestuali odierne» (2 febbraio 2013, https://www.lionspalermodeivespri.it/wordpress/2013/02/02/la-caccia-di-luigi-lo-cascio/ ). Già questa prima prova letteraria non poté prescindere da quella mania che avevamo vissuto in quel giardino del Liceo Garibaldi, non su suggerimento, ma come risorsa, sorgente interiore. Seguì la lettura di Kafka di cui si parlava tra un testo latino o greco, lui che riferiva, come nella trasfigurazione greca o più apertamente nella sintesi di tutte quelle in Ovidio, di una surreale, ma concreta metamorfosi. E per non annoiarvi l’iter giunse alla riflessione interiore di un gigante moderno, chiusa la sua allucinazione classica, anche qui una rilettura di un classico, ormai con i ferri del suo mestiere di attore di teatro. Ritengo che nessuna scuola drammatica poteva prescindere da lui, chiunque sia stato (qualcuno lo collocò a Messina, come la sua commedia, Much Ado About Nothing, ivi ambientata e lo disse “Scuotitore di lancia”), il tragico moderno che riempie la scena di cadaveri (su questo stesso blog. 26 marzo 2014, https://www.lionspalermodeivespri.it/wordpress/2014/03/26/luigi-lo-cascio-ri-legge-otello/ ). Questa la sua scrittura, essenziale e moderna, per rendere il teatro con la vocalità e il linguaggio odierni. A leggere il testo originale del tragediografo inglese, anche la sua Giulietta barocca, ma pure il suo inglese arcaico la perdono a confronto della lingua di Dante ancora comprensibile. Ed è stato un percorso naturale, dallo scavo nella voragine della sue letture e dalle traduzioni di autori a lui congeniali, riletture in una società, dopo tante esperienze cinematografiche e teatrali, la didassi del teatro da Costa ai tanti registi che lo hanno guidato dando voce e anima ad altri geni. Il passo successivo non poteva che essere la sua stessa voce, il suo interiore vissuto, anche se pure amalgamato con le sue letture, ora bebiomenon diremmo con gli antichi nostri maestri e ispiratori. E ne è nato un amalgama che raccoglie tutta una vita, difficile da esprimere se non per tentativi. Non parlerò di prosa fluida e smagliante, talvolta difficile come le folgorazioni di Kafka, né della forma-frammento. Dico soltanto che è un non-romanzo, è la vita con le sue tensioni, le vittorie e le sconfitte. Finalmente Gigi ha parlato con la sua voce. E chi lo conosce e lo legge vi troverà l’uomo che ha sempre dato anima a personaggi creati da altri e ora diventa protagonista e voce interiore. Non il frammento ironico e sarcastico, l’aforisma di Flaiano. Se si vuol proprio trovare lo scarto letterario, l’input potrebbe essere Kafka. Ma c’è tutta l’esperienza del Novecento, dal transfert freudiano, al flusso di memoria. Perché quell’espediente di un nostos, di un viaggio reale di fuga verso Roma, dopo l’improbabile ritorno per la morte del padre di un amico, quel viaggio di esilio verso il Continente materializzato dalle bizze e dai battibecchi dei due coniugi, compagni di scompartimento, è un viaggio interiore, un nostos nostalgico, talvolta doloroso e tragico nella vertigine della sua anima. In un flusso di pensieri e di relitti che emergono dal passato attraverso l’altro espediente degli incipit abortiti. È difficile esporre in sequenza cronologica il nostro vissuto e le nostre scoperte, se poi la nostra mente non riesce a fermarsi su un solo ricordo o riflessione e divaga e intreccia fatti e pensieri. Queste sue scorribande nell’anima fermate sul bianco di un portatile, nonostante l’asperità del linguaggio, la sequenza infinita delle subordinate estranee al mio stile più lapidario ed essenziale, nonostante le citazioni di Vittorini e la sua Conversazione (quel traghetto di Messina) nonostante il suo incedere talvolta troppo evidentemente gnomico e sentenzioso, nella fulminazione della pagina quasi bianca con una pura iscrizione epigrammatica, che mi suggerisce una citazione ultra-letteraria, il Boccaccio del Decameron, con la sua prosa talvolta ritmata, cioè un non-romanzo aperto nel quale puoi continuare all’infinito il flusso interrotto. Tanti altri incipit si potrebbero trovare, tanti altri scorci di anima, si pensi, cinquant’anni di vita che esplodono in folgori, in scintille elettriche. (per altre riflessioni https://www.lavocedinewyork.com/arts/libri/2018/11/08/ogni-ricordo-un-fiore-quando-la-memoria-diventa-romanzo/