LA MODA FEMMINILE
(Francesco Paolo Rivera *)
A Palermo, nella prima metà del XVIII secolo, le dame palermitane erano influenzate dalla moda spagnola. Lunghi mantelli neri che coprivano dal capo fino ai piedi, confezionati in seta o altri tessuti pregiati per le dame di alto rango. Verso la seconda metà del settecento la moda femminile si aprì alla moda francese o francesizzante (o infranciosata, come si diceva a quell’epoca), particolarmente per i residenti nella città, mentre le signore della provincia e delle famiglie meno abbienti erano piuttosto restie ad adottare la nuova moda. Esaminando i nuovi abbigliamenti dettati dalla moda francese, è interessante leggere i commenti, più o meno ironici o salaci, in rima, fatti dai cronisti, ma anche da storici di quell’epoca, sui nuovi capi d’abbigliamento, e dei provvedimenti che vennero assunti per iniziativa di personaggi istituzionali e perfino dalla Corte. Andavano di moda “cantusci o andriè” (1), … questo il commento “triste”, di Giovanni Meli:
“ora non tocca cchiu cantusciu,
si ci spii, dici oimè!
picchi sugnu afflittu e musciu,
pietà pri mia ‘un ci nn’è …!”
si indossavano i “tonti o guardinfanti” (2) …, ecco le “cicalate” dell’arguto cronista messinese Pippo Romano (3):
Spuntannu un guardinfanti l’òmini tutti allura,
un largu ossequiusu faciianu a la signura,
e chidda cu ddu tontu, e dda gran cuda strana,
che trascinava ‘n terra, paria vera sovrana.
Chiudianu l’occhi tutti, né cc’era di imbarazza
pirchi scupava ognuna, sarmi di pruvulazzu;
ed era chiddu tontu un baluardo forti,
‘na rocca inespugnabili chi difinnia li torti.
(Mi servu di metafori, chi la modestia un velu
esiggi in ogni cantu, né tutto vi rivelo!)
Ddu bustu trapuntatu, simile a un fucularu
di pisu undici rotula, sirvia di gran riparu;
l’inverno li guardava di friddu e di punturi,
l’està li depurava a forza di suduri,
l’eterni inistrudibili, supra lu quali spissu
fundava un testaturi lu sò fidicummissu.
Insumma era curazza, furtizza, bastiuni
Cchiu forti pri cummattiri l’Andria, Macrifuni (4)
‘na vera citadedda ferma, sicura e soda.
Oh busti! oh guardinfanti! Oh biniditta moda!”
Con l’andare del tempo la nuova moda, appannaggio delle signore di ceto elevato, contagiò anche i ceti meno abbienti. Dimenticando le leggi suntuarie (5) che venivano da più parti invocate, molti mettevano da parte i quattrini (anche a danno della pancia) per non negare alla propria moglie e alle proprie figlie abiti più lussuosi, parrucchiere, ciprie, andriennes (6), scarpine di seta e altri lussi. Questi i versi composti, da uno scandalizzato poeta, in occasione di un alluvione che nell’ottobre 1772 inzuppò tutti i partecipanti a una festa popolare del Vicerè Fogliani a Mezzomonreale:
Di li fimmini attillati,
schittuliddi e maritati,
cu scufino (7) e frisaturi (8)
pri cumpariri signori,
li fadeddi a mezza gamma,
la scarpetta cu la ciamma (9)
e lu pettu tuttu nudu
chi a pensarici nni sudu.
E ll Meli, per ammonire una ragazza troppo modesta:
Nun ti vestiri a l’antica,
cà di tutti si’ guardata,
comparisci pittinata
cu la scuffia e lu tuppè.
Cu cianchetti (10), veli e pinni,
cu fededda bianca e fina,
cu la scarpa ‘ncarnatina
fai vutare a cu c’è c’è.
Di gran moda era portare, pendente su un fianco, il così detto necessaire da passeggio, un elegante astuccio in argento, che ballonzolando, per ogni movimento della persona, era considerato uno strumento di seduzione. A quell’epoca ancora non si fumava, ma – anche se molti lo consideravano dannoso alla salute – era in grande uso il tabacco da fiuto sia per i signori che per le signore, che lo conservavano in lussuose tabacchiere di avorio o di argento. Un gentiluomo incontrando una signora le offriva la tabacchiera aperta. E qui, a commento, i versi del Meli:
Cu’ ci offerisci
la tabacchera,
cui la stuccera
ci prujrà.
Il Governo, per aderire ai continui reclami dei consumatori, abolì addirittura, nel 1781, il dazio sul tabacco. E trattando di moda femminile, non si può dimenticare, il massimo dell’eleganza delle signore di quell’epoca, le acconciature del capo: “… le donne siciliane avevano chiome bellissime e sapevano in particolar guisa giovarsene per accrescere grazia alla loro bellezza …” questo il giudizio di molti stranieri che viaggiavano in Sicilia, e le cure per tali acconciature era del parrucchiere, della cameriera o di altre persone di casa. Se taluno cercava impiego, presso una casa patrizia, da cameriere, comunicava, come referenza, che era in grado anche di “pettinare da uomo o da donna”. Il parrucchiere era il più valido collaboratore della vanità femminile: la signora andava a letto con le ciocche accartocciate quando attendeva per il giorno dopo il parrucchiere. Il parrucchiere, munito di ferri, ferretti, pettini, bambagia, si recava in casa della cliente (a quell’epoca non esistevano ancora i saloni di bellezza) con sapone di spiga, polveri dentifricie, acqua nanfa (11), acqua di rose, fiori di mirto, acqua del paradiso … e colà svolgeva il “rito” descritto, con umorismo, dalla rima di Pippo Romeo:
“Si spoglia del vestito, si attacca un panno innanti,
divide le incombenze a tutti i servi astanti.
Chi scioglie papigliotti (12), chi intreccia nocche e veli,
chi penne, chi fettucce e chi posticci peli.
E mentre al disimpegno ciascun di lor si adopra,
superbo di se stesso si accinge il fabbro all’opra.
Principia con il pettine a dar la prima carica,
indi pomata e polvere, senza contegno, scarica,
torna a levare e mettere, dissipa senza frutto,
suda a compor la parte, poscia distrugge il tutto.
Riede a ricciar il pelo, unisce, disunisce,
liscia il deforme, e il bello annichila e sbandisce;
innalza il promontorio con stoppa e crine riccio,
guarnisce riccamente di nocche il bel pasticcio,
e dopo il gran lavoro, tutto sudato e sfatto
Signora, consolatevi, dice, il scignò sta fatto!”
Si consumavano ingenti quantitativi di cipria, sia quella normale che quella gialla (13), tanto che, il Senato, a corto di quattrini, impose un dazio di due grani il rotolo (14). Una delle tante “frisature”(15), denominata “gabbia” venne così esaltata dal Meli:
Di lu concavu ancora di la luna
Vinniro pri mudellu alli capiddi
Nuvuli fatti a turri e bastiona.
Poi di l’autri mudelli picciriddi
Cui fa trizzuddi mali assuttilati
Cui d’intilaci (16) fa gaggi di griddi,
vali a dire ddi scufii sbacantati
chi contennu li cammari e li alcovi
cu medianti di ferri filati.
E ancora, una cicalata del messinese Pippo Romeo:
Non stranizzarti, amico, questa è oggi la moda:
un promontorio in testa e palmi sei di coda.
Costumasi un tuppè degno di andare in fiera,
non so se sia castello, piramide o montera (17)
E’ naturale, a questo punto, la domanda, ma “come faceva la signora così acconciata a dormire la notte? “ Un apparecchio di tela inamidata, una specie di cuffia della capacità di due teste, entro il quale veniva custodita l’opera del parrucchiere, chiamata “mimì” che veniva, talvolta, usata dalla signora per uscire da casa. Il mestiere del parrucchiere era abbastanza redditizio: nel 1754 a Palermo 98 maestri parrucchieri si associarono, costituendosi in “Unione”, il cui numero di soci, nel 1780, superava i 250 aderenti. La massima cura della capigliatura subì una fase di decadenza dopo la rivoluzione francese, col progresso del giacobinismo. Mentre gli uomini alla moda cercavano di soppiantare la parrucca coi propri capelli, le dame facevano esattamente il contrario, sostituivano i loro capelli con parrucche e posticci. Il Sovrano proibì l’uso delle parrucche femminili, e proprio una delle dame della Regina (forse una delle più belle ma sicuramente la più discussa) moglie di un gentiluomo di Corte, Grande di Spagna, uno dei dodici cavalieri siciliani dell’Ordine di San Gennaro, violò l’ordine reale e, per questo, fu mandata in espiazione al Monastero dell’Assunta. Puntualmente, il 18 giugno 1799, il Ministro Francesco Statella P.pe del Cassaro (18), indirizzava ai Capitani, ai Giudici e ai Fiscali di Sicilia, la seguente ordinanza: “E’ pervenuta alla notizia del Re che siasi adottata dalla dame e da altre donne l’uso delle parrucche, e che talune per uniformarsi vieppiù ai sistemi repubblicani son giunte tant’oltre che fino anche si son rasi interamente i capelli, trasformandosi in tal guisa notabilmente. Sua Maestà ha risoluto perciò che si proibisca affatto l’uso delle parrucche alle donne sotto pena della carcerazione per le dame in un monastero o reclusorio che S.M. giudicherà e per coloro che le lavorano o le vendono soggiaceranno ugualmente alla pena della carcerazione parimente per quel tempo a S.M. ben visto e alla perdita dei mobili. Con tale espediente si renderà alla pubblica intelligenza la facilità di talune di adattarsi a sì strani modi.” Ma, a dispetto di ogni ordinanza, si faceva strada il “parrucchino politico”, ed ecco l’immancabile “cicalata” di Pippo Romeo, predisposta durante il Carnevale del 1800:
“Finiu la purcaria, è la pilucca in moda
E da lu nostru sessu si esalta, encomia e loda,
qualunqui signuruzza chi vanta gustu finu
la trovu providuta d’un beddu pilucchino,
o niùru, o castagnuolu, o comu quadra ad iddi;
e quattro pila rizzi li portanu alli stiddi,
li compranu salati. Tutti li frisaturi (19)
di pila fanno un trafficu e vinninu favuri!
Finero li sospetti, scrupuli non cc’è chiu
d’esaminari e vidiri … di quali testa sù!”
E, a proposito dell’intervento della Corte circa gli eccessi della moda, anche i ventagli furono oggetto di attenzione. Infatti, i mastodontici ventagli in uso alle signore, poi rimpicciolitisi ma portanti a stampa bizzarre figure riguardanti i sacramenti della confessione e della comunione, o – peggio – canzonette francesi che mettevano in derisione i misteri della Religione, suscitarono la collera sia dell’Arcivescovo Sanseverino che del Vicerè Caracciolo, il quale, ultimo, il 7 luglio 1784 comunicava all’Avvocato Fiscale della Suprema Corte l’opportunità di assumere provvedimenti in merito; quest’ultimo, immediatamente, ordinava che si proibisse la vendita di tali ventagli e si adottassero gli opportuni provvedimenti giudiziali contro coloro che li avevano introdotti, “perché rei di pubblicazioni di stampa senza legali permessi”. Ormai la moda si abbandonava all’andazzo dei tempi, le acconciature dei capelli, i veli leggeri e civettuoli, scialli e cortissimi lini che scoprivano ciò che la morale voleva che si tenesse coperto, preoccupavano particolarmente il Meli per la moda e le libertà importate dalla Francia (le “francioserie”):
“Li gammi si ci vidinu
Lu cintu comparisce
Ed accussì cchiu accrisci
La curiosità.”
Ma anche in Pippo Romeo tali indecenze provocarono reazioni:
“Stu vistiri mudernu senza cchiù capu e cuda,
chi parti su’ cuverti e parti su’ alla nuda,
senza cchiù spaddi e scianchi, senza principiu e fini,
lu centru nun cchiù centru, la vita ‘ntra li rini,
fadetti di sei parmi, ch’appuntanu a li sciddi,
scarpi cu li ligneddi, testi senza capiddi,
pilucchi a battaggiuni, circhetti, castagnoli,
senza disparità di vecchi e di figghiuli,
sta caristia di pila pri tantu gran cunsumu,
stu beddu chi consisti in apparenza e fumu,
sta razza di vintagghi di menzu spangu a stentu,
chi Suli non riparanu e mancu fannu ventu
sti scialli chi si portanu ‘mparissi pri lu friddu
e pisa cchiù ‘na pagghia o un filo di capiddu,
sti veli trasparenti, sta fina cammiciola,
sti musulini oscuri, stu sciusciami chi vola,
chi mettinu in prospettu chiddu chi duvirria
ristari allu cuverto, su’ rami di pazzia!”
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- lunga veste femminile di lusso, composta di drappi a colori, ristretta alle maniche; il nome “cantusciu” derivava dal francese “qu’on touche”,
- crinolino di cerchi sovrapposti confezionati con ossi di balena, che indossati al di sotto delle gonne le facevano apparire gonfie;
- nobile messinese (1733-1805) studiò letteratura a Messina e a Napoli, più volte Senatore e Console nobile di mare e di terra, noto per le sue “cicalate” (discorsi lunghi e monotoni su argomenti privi di interesse);
- erano due fortezze di Messina;
- le leggi romane limitatrici del lusso;
- lunga veste femminile introdotta nel 1704 dall’attrice Tereshe Daucourt nello spettacolo “Andrienne”;
- cuffia,
- acconciatura;
- fiamma,
- erano le imbottiture che le donne usavano porre sotto le vesti per arrotondare i fianchi;
- acqua profumata dalla distillazione della zagara (dall’arabo “nafha”, odore profumo),
- astine metalliche dove si attorcigliavano i capelli, una specie di bigodini;
- la cipria gialla, usata per far bianche e lucenti le chiome, si chiamava “pruvigghia atturrata”,
- misura di peso pari a 0,79 kg;
- acconciatura per capelli, il porre gioielli o posticci tra i capelli;
- sorta di guarnizione per capelli fatta a rete;
- è il copricapo del torero;
- questo “Cassaro” non si riferisce all’attuale corso Vittorio Emanuele di Palermo, ma è il nome di un piccolo centro, con circa 800 abitanti, in provincia di Siracusa;
- ha il significato di trafficanti di parrucche e di posticci.