LE CALDE SERE DI ESTATE
(Francesco Paolo Rivera *)
Villa Valguarnera
Come passavano le calde sere di estate i palermitani del ‘700? Andavano a passeggio alla Marina … o a Villa Giulia, a respirare l’aria buona ma anche e sopratutto a esibire la eleganza delle proprie carrozze padronali, a incontrarsi con i personaggi appartenenti al gran mondo cittadino, la Marina e la Villa Giulia erano frequentati solo dai signori. E, il grande pubblico, dove andava? Si cominciò, proprio in quel periodo, ad andare a passeggio fuori Porta Nuova, prima su Piazza Indipendenza e poi, sempre più numerosi, verso Corso Calatafimi, che allora si chiamava strada di Mezzo Monreale. Molta gente soleva girovagare allegramente in quella strada, fiancheggiata da platani e pioppi, da fontane di limpide e salutari acque (almeno in quell’epoca), e anche da qualche villa elegante:
Ca cui cci va la sira
Ddà fora a Porta Nova,
Siddu ni fa la prova,
mai si la scurdirà
questa una delle liriche popolari che decantavano tale passeggiata, … e un altro componimento la cantava così:
Quant’è bedda la via di Murriali!,
cci su li chiuppi fileri fileri,
e ’ntra lu menzu, li quattro funtani
su’ l’arricrio de li passeggeri! (1)
Altro luogo ove andavano i Palermitani era Sant’Erasmo verso Romagnolo, in contrada detta Mustazzola, dalla “Za’ Sciaveria”. Ma lì si andava, non per passeggiare, ma per intrattenersi con i familiari e con gli amici. La Za’ Sciaveria era, infatti, un elegante ritrovo, tra la trattoria e il bar, vicino alla spiaggia … fronteggiato a sinistra dalla silhoutte del Pellegrino lambito di fronte dalle ondicelle del golfo, guardato a destra dalla batteria del Sacramento, dalla Torre dei Corsari, dal Castello di Ficarazzi che guida l’occhio verso la montagna di Solunto, e dietro e intorno coronato dai Monti Grifone, Gerbino e Gibilrossa (2) …
Era frequentata da persone di ogni classe, anche dai letterati di quell’epoca (3) che ne decantarono i pregi:
E chi ha nobilitatu sta contrata:
‘nfatti Dami, Prelati e Vicerè
vennu ogni jornu a fari passiata;
e tanti e tanti senza li stestè (4)
vennu cca apposta, lassannu la Flora,
sidennu a sti puliti canapè.
L’occhio guarda lu mare e si ristora,
gode vidennu culonne e perterra,
orti, muntagni e la citati ancora.
E anche Giovanni Meli volle magnificare l’eleganza di tale trattoria-caffè
Gran cornucopj,
specchi e lumeri,
ed autri mobili
di cavaleri.
Infatti il locale era arredato e predisposto per potere accogliere qualsiasi tipo di esigenza, tavoli singoli illuminati con due candele, tende a riparo della privacy di gruppi o intere famiglie, musica e ballo, e, anche, spazi per fare baldoria, e non era proibito accedervi coi “reciproci galanti”:
Si balla e canta
Si canta e vivi
E ancora:
Balli e tripudi,
sàuti a muntuni,
favuli e brinnisi,
soni e canzoni
e, ancora, il Meli:
Supra lu scogghiu
di Mustazzola
l’àipa (5) vola,
l’alba si fa!
e dall’Archivio Comunale di Palermo si ha notizia che nel 1781 in favore del Banco Comunale di Palermo veniva assegnata “una soggiogazione di ducati 45 annui sopra la casina e le case alla Zia Sciaveria, così detto Romagnolo.” (6) Certo tale locale non veniva frequentato assiduamente dalla gente meno abbiente, che non mancava, nel caso riuscisse a mettere assieme qualche tarì di farvi una breve visita. Ritornando all’oggetto principale, anche coloro che non godevano di grandi agiatezze, appena potevano, andavano fuori dalla città. Si approfittava delle festività di Madonne e Santi, delle “40 ore del 14 settembre a Monte Pellegrino”, del “Festino del 3 maggio”, per le festività cittadine, ma si approfittava anche della “quinquennali dimostranze di settembre a Monreale”, delle Feste di Maredolce e di Baida, e se proprio non c’erano soldi nelle tasche, si ricorreva pure al Monte di Pietà. Le famiglie più abbienti, i nobili e chi poteva andavano a rinfrancarsi lontani dalla città, a Mezzo Monreale, ai Colli, a Bagheria, accompagnati da stuoli di familiari e di amici, nelle ville suntuose che possedevano: villa Butera, villa Valguarnera, villa Palagonia, quelle dei principi della Cattolica, dei Cutò, di Rammacca, di Campofranco, di Villarosa, per citarne alcune. Il Principe Salvatore Branciforte di Butera, sdegnato della Corte e dei Vicerè “stranieri” fece scolpire sul frontone della sua villa i versi spagnoli
Ya la speranza ca perdida,
Y un sik biene me consuela,
Ques ci tiempo, qui pasa y buela,
Lleverà presto la mi vida.
Circa cent’anni dopo nel 1797 il principe Ercole Branciforti Pignatelli trasformò la sua villa in un monastero di trappisti, i cui monaci, riprodotti in cera, erano intenti a rappresentare momenti della vita claustrale (7). La Villa Valguarnera era paragonabile a una reggia (sicuramente più fastosa di quelle dei regnanti europei di quell’epoca), ove dame e cavalieri, amici, vassalli, contornati da sciami di servitori e valletti, abitavano splendidi ambienti, decorati con ogni sfarzo, addobbati con ogni lusso, (c’era perfino il teatro) contornati da magnifici quadri, sculture e affreschi, godevano dell’ospitalità dei padroni. I nobili, annoiati dalla monotona vita cittadina, si ritiravano in queste reggie, ove intrattenevano i loro ospiti, anche loro illustri, in lauti pranzi, brillanti conversazioni, giochi e tornei, battute di caccia e ogni altri tipo di passatempi. Si spendevano tesori per ornare tali ville e gli artisti di quell’epoca venivano spesso incaricati della realizzazione di opere fantastiche al di fuori di ogni immaginazione, di affreschi, tele, sculture che ornavano dette dimore. Molti i commenti, favorevoli o negativi, circa la costruzione del palazzo principale, delle strutture accessorie e delle appendici ornamentali, circa gli affreschi, gli arredi e gli addobbi di tale dimora, ideati e realizzati con grande fantasia anche allo scopo di stupire l’ospite: moltissimi i commenti di illustri personaggi stranieri (8) che l’avevano visitato. “Ma oh1 quale contrasto all’atticismo della Valguarnera e la farnetica villa di Palagonia!” esclamò lo scrittore comasco Carlo Gastone Rezzonico della Torre in visita a Bagheria, in compagnia del Pretore di Palermo duca di Cannizzaro, del p.pe di Grammonte e del duca di Calvello (19 agosto 1793). E aggiunse “Sembravami il castello di Circe o di qualche fata, che di lemuri (9), di larve, di farfarelli (10), popolando logge e tetti ed archi e viali godesse atterrire, deludere, affascinare i pellegrini con istrani ludibrj infernali, ed apparenze grottesche di uomini, di animali e di mostri insieme accoppiati e misti. Qui vedi sopra attestate più teste umane e ferine, ciclopi non solo triocoli, ma sestocoli, orecchie d’asino, di capra, di cinghiale e tempie d’uomini affisse, demoni che abbracciano streghe o suonano violoni, e vanno imbacuccate di larghe parrucche e di folte ricciaie (11), anuti, cercopitechi, policefali, gerioni (12), e pagodi indiani …”. Colui che, materialmente spese una fortuna (pare che il costo sia stato superiore a centomila scudi) per la realizzazione di una tale opera che stupì e inorridì tutti coloro che la visitarono, che fece realizzare tantissime sculture e decorazioni che raffiguravano animali immaginari, il fondatore p.pe Ferdinando di Palagonia, soleva dire … “di avere avuto al mondo l’abilità di dare supplemento alla creazione di animali lasciata imperfetta da Domeneddio”. Con questo esilarante epigramma, Giovanni Meli commentò l’affermazione del suo autore:
“Giovi guardau da la sua reggia immensa
La bella villa di Palagunia,
unni l’arte impietrisci, eterna e addensa
l’aborti di bizzarra fantasia.
Viju, dissi la mia insufficienza.
Mostri n’escogitai quanto putia,
ma dove terminau la mia potenza,
ddà stisso incominciau Palagunia.”
Johann Wolfang Goethe, che visitò le ville di Bagheria il 9 aprile 1787 rimase talmente sbalordito e inorridito per le forme mostruose per i gruppi, i busti e le statue che ne trasmise tutto il suo orrore nel suo Sizilianische Reise del 1816.
* Lions Club Milano Galleria 108 Ib-4
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- esiste ancora qualcuna di quelle fontane?
- così magnificata dalla pubblicità di quel tempo;
- la Za’ Sciaveria pare che fosse la mamma di un bimbo nanerottolo e gobetto “avente mente e pensieri da re”. Poiché secondo la credenza popolare tali deformazioni fisiche apportavano insolita fortuna, un poeta di quell’epoca, certo Melchiore – anche per decantare le meraviglie del ritrovo di Romagnolo – ambientò l’evento nel mondo delle favole: il bimbo era frutto dell’amore con un mitico personaggio, il gigante Encelado (figlio di Gea), che avendo partecipato alla Gigantomachia, sconfitto dagli dei, fu sotterrato, per castigo, da Athena in Sicilia (addirittura sotto l’Etna) e fu partorito dalla Za’ Sciaveria, dopo tremila anni, pertanto l’insolita fortuna della trattoria caffè, proveniva dalla sua origine divina;
- senza cavalli (cioè senza carrozze):
- specie di uccello acquatico simile al gabbiano;
- la contrada viene denominata in tale documento “Za’ Sciaveria – Romagnolo”, ma il nome della contrada era e continua ad essere “Romagnolo” dal nome del Senatore Corrado Romagnolo, proprietario di una villa in quella contrada;;
- in una cella la coppia Comingio e Adelaide (personaggi creati dalla fantasia popolare) in saio bianco, raffiguravano due giovani, che non avendo potuto coronare il loro sogno di amore, si erano dati al monachesimo; in altra cella due monaci raffiguravano il p.pe Ercole Branciforte e il re Ferdinando III che giocavano tra di loro a carte, che destarono la esilarante reazione del monarca in visita;
- Patrick Brydone (scienziato inglese, “Viaggio in Sicilia e Malta” – 1767), Johann Hermann von Riedesel barone di Eisembach s/ Altemburg (diplomatico e politico tedesco, 1767), Jean Pierre Houel, (incisore, pittore, architetto francese, “Viaggio in Sicilia e a Malta” – 1771), Jean Claude Richard de Saint Non (storico francese,” Voyage pittoresque ou description des royaumes de Naples et de Sicile” -, 1781-1878), Michel Jean barone de Borch (erudito, naturalista, viaggiatore polacco, “Lythologie Siciliane” – (1776);
- una specie di scoiattolo del Madagascar;
- spiriti infernali, folletti;
- ammassi di capelli;
- mostri demoniaci.