LA POESIA DI CANNELLA TRA “ANOMALIE” E NOVITÀ ( Salvatore Di Marco*)
( Salvatore Di Marco*)
Basta conoscere a fondo l’attività poetica di Francesco Maria Cannella per convincersi, leggendo le liriche di questa silloge intitolata LA PORTA SOCCHIUSA, che le sue qualità di cantore moderno, gli stilemi della sua scrittura, la disponibilità alla sperimentazione espressiva, sono quelle che già erano apparse evidenti fin dal suo esordio letterario. Tanto più che il suo primo rivelarsi sugli scenari della poesia di oggi non è molto lontano nel tempo. Bisogna, infatti, partire dal giugno del 2005 allorquando fu portata alle stampe, per i tipi delle Edizioni Thule di Palermo, la sua prima silloge intitolata LA STANZA È CALDA. Quell’opera prima fu tenuta a battesimo (come si suol dire) da una felice prefazione di Alfio Inserra, il quale parlò subito di “un prodotto originale, diverso, controcorrente, che assorbe e reinveste tradizione e tendenze” pur annotando fugacemente “anomalie e scompensi stilistici”. Mi pare esatto quel giudizio di Inserra, proprio se riportato alla vocazione sperimentale del poeta cui ho appena accennato, laddove non sfugga che non v’è – nella pratica letteraria – ricerca sperimentale di nuovi stilemi che non assumano, rispetto alla tradizione e alla normalità di codici espressivi, connotati – per l’appunto – anomali e scompensativi. E giustamente Inserra coglieva nell’intera silloge del 2005 “un linguaggio ellittico, denso di metonimie e di sineddoche ardite”. Non mi pare che oggi le liriche de LA PORTA SOCCHIUSA si siano rasserenate rispetto all’impervia traiettoria della ricerca stilistica sulla quale Francesco Maria Cannella è impegnato. Sicché ancora adesso il poeta impone una lettura sofferta, tutta scommessa sulla disponibilità del lettore a rifondare i propri codici interpretativi, a rimettere in forse le proprie assunzioni di merito estetico. E mi pare che su questa linea si sia posto Aldo Gerbino quando stese la sua prefazione alla silloge NON VOGLIO OMBRE ALLA MIA FINESTRA che Francesco Maria Cannella pubblicò nel 2006, sempre con la Libri Thule dell’editore Tommaso Romano. Gerbino, infatti, dice che quel “manipolo di testi” riuniti nella seconda silloge e composti tra il 2003 e il 2005 “sembra proiettato verso un prossimo futuro creativo aperto ad ogni soluzione, nel travaglio per l’assunzione di uno stile che sta elaborando il suo calco, la sua forma insaziata di significati, di ombre polimorfe e sentenziose”. Sono tuttavia più netti i temi dell’anima, le inquietudini del dettato interiore, le fughe del reale, le trasfigurazioni drammatiche del vivere. Ed ecco così emergere il segno inconfondibile della poesia, la voce interrogante dell’anima; ecco, cioè, lo stigma di una poetica della sofferenza, della instabilità, del preludio che precipita nel consueto, nel consumato, nell’usura quotidiana. E qui, ne LA PORTA SOCCHIUSA, più scabra e lacerante si fa la parola poetica, sempre insoluta, irrisolta, inquietante. Ed è proprio questa tipologia letteraria della parola che rivela nei versi aspri di Cannella l’imporsi di un rapporto desolato con l’esserci (divieto di ristoro / inutile pietà /…), che simboleggia lo sfilacciamento, l’estraneità, dell’io con la natura e con i suoi più consueti archetipi (varco di ricordi che tutto disincarna) in un quadro complessivo, articolato cioè in tutta la silloge, dove si “dislaccia” la suggestione amara, disincantata, di un “tacito esilio”. Sono gli esodi dell’anima, l’itineranza, appunto l’esilio, i motivi basilari su cui Cannella costruisce una condizione poetica come rispecchiamento della condizione umana. Ed ecco che il poeta canta la pena (potessi far finta di non rabbuiare la pace); oppure
Ad ogni passo
scoperte occhiate rivogliono
ciò che di mio rimane
parola vana, forse passione,
reciproco abbaglio o sola pietà.
Pensate quanto possa essere terribile quel “ciò che di mio rimane” che sottende già ad una dispersione dell’io, ad una situazione di perdita, di deminutio, che può anche essere drammaticamente una vera e propria deminutio cordis, mentre la verità può rivelarsi come “abbaglio”, spiraglio forse per la pietà. Parlerei – resistendo alla tentazione di collegare questa poetica a forti filosofie del primo Novecento europeo – di una sorta di desertificazione dell’esistenza, di un disfarsi lento e inarrestabile dei suoi segnacoli, un prosciugarsi della memoria deprivata delle potenzialità di conforto, di alternativa, di riscatto. Si può, infine, parlare di una poetica della infelicità? Forse, se non temessi d’imbattermi in troppi equivoci, se non s’incontrassero i confini di una scontata letteratura. Ma dice il poeta
Non sento passione che possa ridare
un facile orgoglio, un’utile ovvietà,
a questo germoglio di perse illusioni.
Mi par d’ascoltare la voce impervia della Disperanza. Perciò a me pare che quella ricerca sperimentale sul terreno della espressione linguistica cui facevo cenno all’inizio, prima di rivelarsi come vocazione puramente letteraria all’interno di un progetto che tocchi e investa i moduli estetici e i canoni formali, sia invece una esigenza interiore, quella dell’approdo verso consonanze, o se si vuole, complicità tra il ‘dettato della poetica della disperanza’ che è non solo in questa silloge, ma nella natura stessa del poetare di Cannella, e i codici linguistici delle sue significazioni. Così ci ritroviamo al punto di partenza: una poesia originale, questa di Cannella, e tuttavia “anomala” per la quale ho consapevolmente evitato richiami, assonanze, apparentamenti con talune espressioni altissime del pensiero e della poesia europea novecentesca, poiché sono persuaso che solo le “anomalie” (rispetto ai canoni qui accennati) del suo dettato stilistico ci aprono la via verso la “originalità” della sua ricerca poetica.
VULNERABILITÀ
[La pelle divide l’anima a tagli]
[…] sarebbe la speranza morta che ora in me ride.
Attilio Bertolucci, Viaggio d’inverno, 1971
L’alto raggio di colori intravisti appena
tra l’unghia malferma e il fumo azzurrino
vapora –
e mai dal pane rinasce un guizzo
Sinora
è stata demenza e fissa immagine di morte
un vago stridore d’incanti –
sussurri
La pelle divide l’anima a tagli
ed è una questione
di cui mio malgrado non posso che rendere grazia
Potessi far finta di non rabbuiare la pace in un carme
per chiedere al niente un corpo già vinto
da unti ristori –
silenzi rapiti o forse un sogghigno
Potessi e non voglio
tarpando l’urgenza d’un muto calore
la pena è la stessa
ed è pacatezza…
__________
TUORLO
[…] e su di me arrampicando sale tacito ciò che sognai.
Paul Celan, Papavero e Memoria, 1952
Lingue distorte ad ogni frantoio, facile
nudo Promontorio,
d’inibizioni e non basta –
non ferisce l’onta d’un malinteso
capovolto
come tacita preghiera
o feto in attesa
. . .
Induce a vegliare la sorte
ché unico pretesto per non derivare
un filo ricama, detiene,
l’atto compreso d’un’altra vicenda –
un dono ritorto…
LAETOLI
…lacerazione che è di ogni ricerca d’immagine,
dissipazione di ogni segno.
Yves Bonnefoy
Le vele schiodate ripongono un voto
d’omissione la tela
divisa tra puro e marmoreo
Altrove
la grazia sostiene l’invito la meta
Il mare rivela
in dote
contorni d’Africa pietre
Trappola o rete
ad Eyasi e più in là
Sudore piumato
Impronte di un’Età
* * *
…la mia ingenua rabbia non è competitrice.
Pier Paolo Pasolini
Aspri contorni d’isole verdi.
Lidi sottili nell’acqua che affiora.
L’ultima nube di coltre e di fumo
vinta alle soglie d’immoti giacigli,
giace rafferma, sparuta nel porto,
tra doglie inesatte, confuse
al martirio –
dell’onda che sfranga
inabili sbarchi…
* Da ‘La porta socchiusa’ (2004-2006) di Francesco Maria Cannella, ancora inedita
Prefazione di Salvatore Di Marco & quattro poesie dalla silloge