MEZZI DI TRASPORTO

(Francesco Paolo Rivera*)

Come in tutte le Città, anche a Palermo, nel XVII e XVIII secolo, circolavano i mezzi adibiti al trasporto delle persone, oltre quelli per le mercanzie e per i materiali di ogni tipo. Naturalmente i mezzi destinati al trasporto delle persone sia nell’ambito della nobiltà che anche in quello del ceto medio servivano, anche a fare sfoggio delle possibilità economiche dei proprietari. In origine, naturalmente per i soli uomini, il mezzo di trasporto usuale era il cavallo, anche se con particolari bardature e selle che servivano a dimostrare al prossimo il censo del proprietario; ma i mezzi di locomozione di quell’epoca erano parecchi e soprattutto avevano diversi usi e destinazioni. Se si andava alla Marina, in certe ore del giorno, per passeggio si incontravano portantine o sedie volanti o seggette. Le prime simili alle lettighe, decorate con eleganti fregi e dorature all’esterno e arredate con stoffe di gran pregio all’interno davano la dimostrazione del maggiore o minor lusso e quindi della maggiore o minore disponibilità economica dei proprietari, belle, eleganti una più dell’altra, con sculture lignee raffiguranti divinità o mostri mitologici, talvolta chiuse con cristalli, a uno o a due posti, trasportate da quattro o sei servi. Con queste gareggiavano le portantine, anch’esse riccamente adornate, sui cui morbidi cuscini stavano adagiate splendide dame della nobiltà, riverite e ossequiate dai passanti. Non servivano soltanto per diporto, ma venivano usate anche per ricorrenze sacre (per esempio la visita ai Sepolcri durante la settimana santa). Se si utilizzavano per circolare in città erano trasportate a braccia dai servi (in caso di ricevimenti, di feste o di altre manifestazioni, … ma anche per esibire lo sfarzo e la nobiltà degli occupanti), se i percorsi erano molto lunghi, venivano trasportate da bestie da soma. Il Senato possedeva carrozze suntuose, ma il Pretore o qualcuno dei Senatori, facevano uso della portantina  (o di loro proprietà o messa a loro disposizione da altri) in occasione della gita al Monte Pellegrino per la Festa delle quarantore nella grotta della Santa.

 

Portantine ne possedevano, oltre alle più nobili e ricche famiglie, anche la Corte del Vicerè, la Corte dell’Arcivescovo, molti conventi e monasteri. Il 4 settembre 1899 il Cardinale Celesia si recò al Santuario di Santa Rosalia con una portantina messa a disposizione delle nobili suore del Monastero di Santa Caterina. La tradizione fa riferimento alle sedie volanti (1), simili alle portantine (una specie di poltrona con le pareti da tre lati e il portello di accesso, sorretta da almeno due servi) esistenti nei conventi e nei monasteri.  Nel Convento dei Domenicani  ve ne era una adibita all’uso di qualche dignitario dell’Inquisizione, e portava dipinto l’emblema di un cane con la fiaccola accesa in bocca e le iscrizioni da un lato “Quis ascendit in montem santum Domini?” e dall’altro lato “Innocens manibus et mundo corde”, altre erano nei Monasteri della Pietà, delle Stimmate, di San Vito, della Concezione; molte portantine venivano usate per il trasporto di dignitari ma anche di persone invalide.Nelle portantine comuni o a noleggio mancavano, ovviamente, i fregi e le dorature, erano rivestite in pelle nera rasa, e venivano usate per semplice diporto, o da medici per le loro visite, da magistrati negli accessi giudiziari o da ecclesiastici, o dalle levatrici.  Anche i delinquenti venivano trasportati con tali mezzi, sotto scorta, alla Vicaria o dalle carceri all’ospedale (prima che costruissero l’infermeria nei luoghi di pena), ma naturalmente tali portantine erano vere e proprie gabbie. Le “seggette”,  simili alle sedie (2), venivano adoperate per condurre, debitamente fiancheggiate da poliziotti, alla pietra del vitupero (3) i debitori e i falliti, i delinquenti alle prigioni o nella piazza ove il giustiziere eseguiva la sentenza di morte

“Seggia a stura? Ch’è medico o mammana?

O runna chi a qualcunu s’attapancia? (4)

Pare che si facesse uso della “seggetta” anche per trasportare i defunti al cimitero; il venerdì santo, i cappellani delle parrocchie le usavano per recarsi in Cattedrale a prelevare l’olio santo da somministrare ai moribondi durante l’anno, forse perché non si poteva, per tradizione, far uso della carrozza durante la settimana celebrativa della Passione di Cristo. Chi aveva il gravoso compito di trasportare i passeggeri su quei mezzi? i “seggettieri”, che si dividevano in due categorie, quelli da nolo e quelli padronali. I seggettieri da nolo, tra di loro associati sotto la devozione dei loro santi protettori (Euno e Giuliano), facevano parte della confraternita di S.Univ, e abitavano o a Ballarò, in un vicolo che si chiamava, una volta, “via dei Seggettieri” e oggi via Antonio Lo Monaco Ciaccio, o al Capo, in quello che, ancor oggi porta il nome di “via Seggettieri”.  I portantini, veri e propri facchini, erano paragonabili alle bestie, sempre pronti, con la cinghia alla nuda e le mani alle robuste stanghe laterali, si addossavano qualsiasi carico. Venivano denominati “mastru o vastasu di cinga” o anche, più semplicemente “cinga” (che nell’antico dialetto era sinonimo di coloro che commettevano atti incivili della peggiore specie). I portantini padronali facevano parte della servitù delle grandi famiglie. Poltrivano nelle anticamere dei palazzi nobiliari, ma erano sempre pronti, indossando livree di gran pregio e parrucche, a trasportare i loro aristocratici padroni e le elegantissime dame a feste, veglie e altre manifestazioni sopra elegantissime portantine, ricche di ori, di intagli e di tessuti lussuosi, munite di cinghie dorate, e se il trasporto avveniva alla sera, erano accompagnati da quelli che reggevano le torce (5). La tariffa del noleggio delle portantine era, per un “viaggio” al Cassaro o per la Strada Nuova (via Maqueda) di due o tre tarì, molto di più se si andava fuori città, e non tutti avevamo questa possibilità economica.  Si poteva fare uso anche dei carrozzini e chi non aveva tale possibilità di mantenerli, si accontentava di quelli che forniva il noto “Vituzzo”. Un accorto mercante, certo Antonio Bruno, ebbe una idea, per quell’epoca, ardita, le carrozzelle a noleggio, che incontrarono subito il favore del pubblico. Il prezzo per ogni corsa era un tarì e, proprio per assonanza al prezzo di noleggio, il pubblico le denominò “tarioli”. Certamente, tale nuova impresa, danneggiò coloro che noleggiavano le portantine, i quali all’inizio cominciarono a deridere i conducenti dei tarioli, per passare poi agli insulti, alle ingiurie, alle zuffe. Di tarioli se ne contavano, una trentina sul piano della Marina, Nel 1785 erano diventati ottantacinque e due anni dopo addirittura centoventuno, che, a seguito di una ordinanza emanata dal Giustiziere, avevano l’obbligo di portare il numero progressivo dipinto a cassetta. Oltre a tali carrozzelle cominciarono a essere usate dei calessini a due ruote, che meglio si districavano nel traffico della città.  Altri imprenditori (Matteo d’Aquila e Girolamo Montalbano) misero in piedi imprese di trasporti con carrozze; la carrozza divenne per i palermitani una passione, un oggetto di prima necessità: il Cassaro, per la presenza di innumerevoli carrozze che andavano avanti e indietro, tra le botteghe illuminate, tra il fracasso della gente, venne addirittura paragonato,  dagli stranieri di passaggio, alla Av. Saint Honerè di Parigi.  Il Villabianca annotava nelle sue cronache, nel 1782, “Ai dì nostri, il mantenimento delle carrozze è un lusso da nobili, credendo il volgo doversi reputar soltanto cavaliere colui che ha la carrozza e non va a piedi come le persone minute. Cangiano i  tempi, e sempre più invade la moda corrente di tener carrozze per far mostra ognuno di sua nobiltà e del carattere di sua persona …” Fino dal 1647 solo le dame dell’alta aristocrazia usavano la carrozza, gli uomini andavano a cavallo; i ministri regi del Sacro Collegio, i Presidenti e i giudici, si servivano, nelle cerimonie ufficiali, della “chinea bianca” (6), preceduti da valletti e accompagnati dagli “algozini” (7). Le carrozze erano in totale 72, un secolo dopo nel 1782 le carrozze erano aumentate a 784, escludendo nel conto le timonelle (8), le carrozze militari e gli altri veicoli di personaggi non residenti nella città. Questo stato di cose generava gravi inconvenienti: cocchieri padronali che tentavano di sopraffare i cocchieri da nolo, che transitavano soltanto attraverso le vie più importanti della città, non rispettando il transito degli altri, occupando abusivamente gli spazi già angusti delle strade di quell’epoca, ma addirittura impedendo il libero transito dei pedoni. Tali abusi non si attenuavano né con le minacce, né con le punizioni, né con le multe. Il Vicerè Caracciolo, sostenuto dal Marchese di Regalmici (9) e da altri personaggi che amministravano, in quell’epoca, la città, pensò di migliorare molte vie del centro di Palermo, e approfittando di tale ‘mbrogghiu di carrozzi”, applicò, con un decreto, una tassa da pagarsi da tutti coloro che possedevano una carrozza. La tassazione, che avrebbe dovuto avere la durata di quattro anni,  fruttava, per ciascun anno, 2352 onze, da destinare al lastricamento di via Toledo (il nome del Cassaro a quell’epoca) e della via Maqueda. Tale imposizione fiscale generò un subbuglio da parte dei proprietari di carrozze: “A buoni conti che si pensa di fare questo “paglietta” (9) … vuole aggiustare il mondo??!!   Dopo essersela presa con Dio e i Santi, viene a prendersela con la nobiltà, solo perché ha le carrozze?!” …”Sta a vedere che il Cassaro, la Strada Nuova vanno in rovina per noi! Come se le carrozze delle autorità non sciupassero il pavimento esse pure …!” Alcuni, anche imprecando corrispondevano la tassa, ma molti si rifiutarono di pagare. Piovvero le coercizioni giudiziali, la Deputazione fece pignorare molte carrozze di proprietari insolventi, tra cui quella della Marchesa di Geraci (11) e del duca Colonna di Cesarò, che vennero, addirittura, messe all’asta. Non tardarono gli interventi delle Corte di Napoli, la quale dette soddisfazione a coloro che avevano subito tale affronto, ma corretta la forma, nella sostanza il provvedimento che impose la tassa rimase tale e quale, e i proprietari di carrozze continuarono a pagare. Le timonelle e i carriaggi (i carri per il trasporto di materiali, di derrate e di lavoratori) furono esentati dal pagamento della tassa, e così, il 21 marzo 1782, si diede inizio ai lavori per il restauro dei “balatati” delle principali strade della città, con somma soddisfazione del Vicerè e del Pretore Regalmici.

Un certo Vincenzo Bosio, rappresentante della Unione dei locatari di vetture e di cavalli, pensò bene di presentare un ricorso al Vicerè, il quale, per tutta risposta, sentito il parere della Giunta dei Presidenti e del Consultore, comunicò “al Senato di avere sciolto la Unione e di aver concesso ai privati la scelta di usare vetture e cavalli”.

Trascorsero, così i quattro anni fissati per la durata della tassa, ma anzicchè cessare tale imposizione, il 16 marzo 1786 venne pubblicato un bando relativo alla tassa da applicate alle carrozze: carrozze padronali onze tre; birocci, tarioli, canestri a due cavalli senza cocchiere, padronali o di affitto, onze due; carriaggi a un cavallo, carri da buoi, carretti, da città o da fuori, onza una e quindici tarì; sedie volanti onza una. Questa volta a lamentarsi non furono i nobili, ma coloro che per poco più di un tozzo di pane sgobbavano tutto il giorno, sotto la pioggia, sotto il sole rovente e che venivano, perciò, costretti “a dividere il tozzo di pane con la Deputazione delle strade”. La tassa rimase fissa anche nell’800, e garantiva alla municipalità un introito di circa tremila onze per ciascun anno. E, a proposito, del pagamento di tale tassa, vale la pena far  conoscere al lettore che, nel giugno del 1801, il gettito di tale imposizione veniva corrisposto, in quanto a onze 559 dai residenti del quartiere Monte di Pietà (Siralcadi), in quanto a onze 645,15 dai residenti del quartiere Castellammare (la Loggia), in quanto a  onze 650,15 dai residenti del quartiere dell’Albergheria, in quanto a onze 1071,15 dai residenti del quartiere della Kalsa, che era quindi il quartiere ove dimoravano il maggior numero di “signori”.

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* del Lions Club Milano Galleria – 108 Ib-4

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  • esiste ancora la via, nella zona del Monte di Pietà, che ricorda la Sedia Volante. Alla fine della ultima guerra, dalle macerie di un vecchio palazzo patrizio palermitano, distrutto in conseguenza di un bombardamento aereo, fu recuperata una sedia volante riccamente e splendidamente decorata in ottimo stato di conservazione … chissà se esiste ancora e … dove è stata conservata!?
  • altro tipo di sedia, chiamata (forse impropriamente) anche questa seggetta, adibita al solo uso domestico, aveva un ampio schienale, braccioli, e sotto la seduta, che nascondeva un ampio foro, un ripostiglio chiuso con sportello, contenente un vaso da notte (o, forse, un “cantaro”) … e veniva anche denominato “comoda”).
  • in Sicilia, come in altre parti d’Italia, ai falliti veniva inflitta la pena del “vitupèro”: il reo, nudo dalla cintola in giù, veniva fatto acculattare (sbattere con violenza il sedere) sulla “pietra della vergogna”  nella pubblica piazza. Doveva pronunciare la formula “cedo i miei beni”, in mezzo al popolo divertito e plaudente … nel vecchio dialetto “dari lu cu.. alla balata” era sinonimo di “ridursi sul lastrico”! Vale la pena ricordare, per “curiosità storica”, che la sullodata pietra era denominata in un piccolo Comune in provincia di Asti “pietra del vituperio di Aramengo” dalla quale proviene l’espressione “vai a ramengo” … ti auguro il fallimento!  Aramengo, (che oggi conta circa 500 abitanti) nell’Alto Medio Evo, era la capitale di un Ducato Longobardo.”
  • la traduzione “una portantina a quest’ora? Sarà un medico o una levatrice? O una ronda che acciuffi qualcuno?
  • non appena giunti a destinazione, le torce veniva spente negli appositi buchi, disposti dietro le porte dei vestiboli dei palazzi nobiliari.
  • “chinea” o “achinea”, in origine era detto il cavallo bianco che il Re di Napoli omaggiava, a titolo di tributo, ogni anno al Pontefice, poi con tale termine si indicarono i “cavalli bianchi” in uso delle autorità.
  • erano i funzionari che accompagnavano durante le cerimonie ufficiali gli alti Dignitari, recando le insegne del potere.
  • erano carrozze leggere a due o a quattro ruote con un solo cavallo.
  • lo pseudonimo “paglietta” deriva dal fatto che il Vicerè Caracciolo (nato in Spagna ma educato a Napoli) conseguita la laurea in materia giuridica e, a causa delle povere condizioni economiche della famiglia (ma sopratutto sue, perché figlio cadetto) iniziò a svolgere la professione di avvocato. A quell’epoca, data la enorme quantità di avvocati (in media, uno ogni 150 abitanti) – molti dei quali svolgevano la professione senza aver conseguito il titolo di studio o avendolo acquistato -, venivano denominati “paglietta” proprio per l’abitudine di portare in estate un cappello di paglia.
  • Antonio La Grua e Talamanca, marchese di Regalmici e principe di Carini fu Pretore benemerito e attivissimo nella gestione della città, svolse un lavoro superlativo, si interessò, tra l’altro, di restauri di molte opere pubbliche, dell’impianto di villa Giulia, della costruzione di nuove strade, tra le quali, “lo stradone dei Capacioti” – l’attuale via Mariano Stabile – , “lo stradone di Porta Maqueda” – l’attuale via Ruggiero Settimo – e diede il proprio nome a quella piazza Regalmici che i palermitani continuano a chiamare da sempre “Quattro Canti di Campagna” –.
  • faceva parte della famiglia Ventimiglia, una delle più antiche e nobili famiglie siciliane (proveniente da Castelbuono), proprietari – tra l’altro – di un favoloso palazzo ristrutturato dall’architetto Venanzio Marvuglia, che si estendeva di fronte sul Cassaro e lateralmente lungo la via Montevergine, all’interno del quale vi erano statue dello scultore Ignazio Morabito, quasi completamente distrutto nel 1943 in seguito a un bombardamento aereo.

 

 

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