GIOVANNI ARPINO
Dalla Suora giovane a Profumo di donna
(Carmelo Fucarino)
Raramente capita per la biografia di uomo che gli stessi decimi di una data segnino l’anniversario della nascita e della morte, 90° dalla nascita e 30° dalla morte. Perciò è una ricorrenza rara la nascita di Giovanni Arpino a Pola il 27 gennaio 1927 e la morte nella sua seconda patria di adozione, la “città patria” Torino, il 10 dicembre 1987. Il mio primo incontro con lui avvenne attraverso L’ombra delle colline, il suo romanzo memoir delle Langhe del suo cuore e dei suoi compagni di scrittura torinesi della Einaudi, quel neorealismo alla Vittorini che lo aveva accolto, contro l’opinione di Calvino, in appassionata sintonia con la letteratura nordamericana da Hemingway a Steinbeck. È la dolorosa ed idillica autobiografia del mito della Resistenza, rivissuta e idealizzata attraverso l’esperienza di un eroe che riassume e diventa simbolo della metamorfosi di una fase della nostra storia tra guerra e presa di coscienza di un’epoca nuova. Erano per me gli anni giovanili delle edizioni del Club degli editori e della collana dei libri del Premio Strega, che egli aveva ottenuto nel 1964, proprio per questo romanzo del 1962. Ma erano soprattutto gli anni della letteratura dell’impegno e della lotta partigiana che appresi per bocca di Fenoglio e Pratolini e Vittorini. Erano gli anni delle Lettere edite e inedite. 1912-1937 di Antonio Gramsci (Il Saggiatore, 1964), delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (Einaudi, 1963). Mi ero perso i suoi primi romanzi a cominciare da Sei stato felice, Giovanni (1952), nei “Gettoni” Einaudi, creati proprio per gli scrittori emergenti, grande colpo di fortuna, sponsorizzato da Elio Vittorini («neorealismo con parolacce» lo definì) e dall’autore in seguito rinnegato. Ciò è spiegabile dalla svolta avvenuta nel suo secondo romanzo, Gli anni del giudizio (1958), ove si innestano su un fondo neorealistico segni di un’inquietudine individuale, che prospetta quasi una rottura, una crisi nell’equilibrio tra interiorità e società. Essa sfocia in un reciso passaggio dalla sfera proletaria a quella piccolo-borghese in La suora giovane (1959): ormai la crasi tra il realismo collettivo è annullata nell’analisi pietosa del soggetto, nell’individuo con le sue debolezze esistenziali. Avrei conosciuto l’opera in altra versione, quella del 1965 del regista Bruno Paolinelli nella interpretazione di Laura Efrikian (sic allora, ora meglio Ephrikiàn), di Jonathan Elliot e Cesarino Miceli Picardi, «un racconto lungo che ha tutta l’aria di essere un capolavoro del suo genere» e «un idillio ricavato dal legno delle più cruda e naturalistica fetta di vita», come lo definì Eugenio Montale. E conobbi e apprezzai in seguito i due altri grandi Un delitto d’onore (1961) e Una nuvola d’ira (1962), in cui la continuità tematica della primitiva problematica sociale si mantiene e con maggiore incisività soprattutto nel secondo, anche se già risulta evidente la messa in crisi dell’incerto equilibrio tra io e società. Lo avrei ritrovato in un altro periodo di letture pazzesche e, direi, a tappeto, appena fresche di stampa, quando nulla mi sfuggì della narrativa italiana e straniera, che andava passando sui banchi della mia libreria, la Dante, all’angolo della via Maqueda del Teatro del Sole di Palermo, scorrerie favorite e segnalate da una straordinaria guida, un attento ragazzo di banco della libreria. Perciò mi stordii anche con Un’anima persa (1966), La babbuina (1967), Il buio e il miele (1969), Randagio è l’eroe (1972, Premio Campiello), quelle stupende copertine rigide a colori della Einaudi e quel profumo di carta appena stampata. Ormai la crisi storica di guerra e dopoguerra, dopo la stasi e l’immobilismo del fascismo, era divenuta rivoluzione sociale, ma in lui quei fermenti di nuovi equilibri si erano chiusi nella desolazione interiore di un protagonista che non riusciva a realizzarsi, fino a giungere a quei sintomi incombenti dell’alienazione, raccontati attraverso la rottura della stessa struttura narrativa, nella sconfitta e nel rinnegamento di quella obiettività e autenticità che erano state alla base del primigenio progetto del neorealismo. Ormai dalla storia e dalla collettività, dal “popolo”, si era involuto in quella interiorità che sentiva la sconfitta di tante idealità, fino alla fiaba e all’allegoria di Domingo il favoloso (1975). Certamente ha segnato il corso della vita di tanti lettori e spettatori. Perché egli fu venditore di libri Einaudi, impiegato nell’ufficio vendite rateali della casa editrice che lo portò in giro per l’Italia in macchina e fino a Parigi, cosa oggi impensabile per uno scrittore icona, di passaggio per tutte le vetrine mediatiche, ma fu anche un accanito e imperterrito scrittore di vite, spesso al ritmo di un libro ogni due anni. E scrittore di testi che passarono subito sullo schermo. Per l’America Il buio e il miele conobbe il grandioso remake di Profumo di donna di Dino Risi, nella grandiosa interpretazione del mattatore Vittorio Gassman, Scent of a woman di Martin Brest, emulo Al Pacino, premio Oscar 1993. Così nel 1983 Una nuvola d’ira, «il primo vero romanzo politico che sia mai stato scritto in Italia» negli anni del boom economico torinese, divenne film, regia di Massimo Scaglione con Gipo Farassino e Ileana Ghione. Seguì Un’anima persa di Dino Risi con Vittorio Gassman e Catherine Deneuve nel 1977.