ROSA BALISTRERI
(Pippo Pappalardo)
«Rosa Balistreri è un personaggio favoloso, direi un dramma, un romanzo». Così il poeta Ignazio Buttitta descriveva questa donna povera ma forte, indomita, orgogliosa; una cantastorie dalla voce roca, drammatica, con cui si è fatta interprete di un vasto repertorio di antichi testi di autori ignoti, reinterpretati e attualizzati, oltre che testi di autori contemporanei come Buttitta; una cantastorie che ha lottato contro la fame, la miseria e il dolore, ma che ha reagito, è andata avanti ed ha raggiunto le vette del successo. Rosa Balistreri nasce a Licata (AG) il 21/03/1927 in un quartiere degradato sito nei pressi dell’attuale piazza Linares. Emanuele, il padre, falegname, uomo irascibile, giocatore, ubriacone, geloso della moglie Vincenza Gibaldi; le tre sorelle, Maria, Mariannina e Angela; il fratello Vincenzo, paralitico dalla nascita di entrambe le gambe; è questa la famiglia d’origine di Rosa. Una famiglia tanto povera da non darle neppure la possibilità di acquistare un paio di scarpe; una famiglia girovaga che Rosa cerca di aiutare in tutti i modi, adattandosi a fare anche lavoretti umili. A sedici anni è data in sposa a un tale Gioacchino Torregrossa, detto Jachinazzu, un uomo indolente, ubriacone, giocatore e ladro. Per mantenere questa nuova famiglia, Rosa va a lavorare in una vetreria. Successivamente si dà da fare come venditrice di lumache, fichi d’india, capperi, sarde salate e altra roba. In questo periodo impara a leggere e scrivere. Un giorno il marito si gioca a carte la dote di Angela, unica figlia nata dal loro matrimonio. Rosa s’infuria al punto tale da aggredirlo e ferirlo con una lima. Pensando di averlo ucciso, si costituisce ai carabinieri. Processata, Rosa sconta 21 giorni di carcere con la condizionale. Il matrimonio finisce qui. Uscita dalla prigione, Rosa decide di lasciare Licata e di trasferirsi a Palermo. Qui trova lavoro come domestica presso una famiglia nobile e benestante. Si innamora del figlio del padrone e, questi, la seduce. Il «giovin signore» la convince, però, a rubare soldi in casa dei propri genitori. Condannata, sconta altri sette mesi di carcere. Espiata questa seconda pena, Rosa si impiega come domestica e, successivamente, come sacrestana nella Chiesa degli Agonizzanti a Palermo. Morto il vecchio prete, dal nuovo riceve delle avance, non cede e, per questo, viene allontanata. A questo punto Rosa si appropria delle offerte custodite nella cassetta delle elemosine, compra due biglietti ferroviari e, insieme col fratello Vincenzino, fugge dalla Sicilia alla volta di Firenze. Ha 22 anni. Sarà presto raggiunta dalla madre e dalla sorella Maria. A Firenze la vita accenna a sorriderle: Vincenzo lavora come calzolaio; Rosa, come domestica. Conosce il pittore fiorentino Manfredi Lombardi e con lui inizia una storia che durerà dodici anni. Le avversità, però, non l’abbandonano. Infatti Maria, dopo aver lasciato il marito, si rifugia da lei a Firenze. Raggiunta dal marito, Maria viene da questi uccisa (1957). Un anno dopo il padre, disperato, si suicida impiccandosi sul Lungarno. In questo periodo Rosa intreccia amicizie nel campo della musica, della cultura e dell’arte. Inizia la collaborazione con la casa discografica Ricordi. Ed inizia così la sua carriera di cantante professionista. Nel 1966 prende parte allo spettacolo «Ci ragiono e canto» di Dario Fo. Il grande attore vuole Rosa con sé, colpito dal timbro e dalla forza espressiva della sua voce. Conosce Ignazio Buttitta e Ciccio Busacca. Le sue canzoni si fanno strada; canzoni che parlano di miseria e di disperazione, di sofferenze e di ingiustizie. Rosa, come lei stessa dirà in un’intervista, canta «il dolore della sua terra, dei poveri, degli operai, dei braccianti, dei disoccupati, delle donne siciliane che vivono come bestie». Nel 1971 torna a Palermo. Il grande poeta Buttitta, che la invoglia a imparare la chitarra, scrive per lei alcune liriche, fra cui «I pirati a Palermu». Il Teatro Biondo le apre le porte. Ora i palermitani l’apprezzano. Uomini di cultura, politici, accademici l’applaudono e la invitano nelle loro case. Ma lei non si monta la testa. Nel 1973 partecipa al Festival di Sanremo con la canzone «Terra che non senti», ma viene esclusa. Gira l’Italia e il mondo come cantastorie. Le sue tournèe la vedono in Paesi come la Svezia, la Germania, l’America. Riceve ovunque consensi e applausi. Nel 1985 si trasferisce a Partinico per poi tornare a Firenze. Negli ultimi anni gira in lungo e in largo per l’Italia, partecipando a concerti e sagre paesane. Torna spesso a Palermo, anche per andare a trovare il caro, e ormai vecchio, amico Buttitta. Un anno prima della morte fa ritorno nella sua Licata. Un amico, l’avvocato Giuseppe Cantavenere, raccoglie i suoi ricordi e ne scrive la biografia. Colpita da un ictus cerebrale, muore a Palermo il 20/09/1990 nell’Ospedale di Villa Sofia. Così il giornale “La Repubblica” annuncia la sua scomparsa: «Si è spenta una Voce». E la maiuscola non è un refuso di stampa.
Rosa
Rosa di tìa, ppi tìa, vògghiu cantari
la stòria di na vita di duluri
ca nzèmula fa chiànciri e nzunnari
pirchì li stenti tò figghiaru onuri.
Penzu ccu quanti làcrimi e allammicu
tu cci cuntasti prima di muriri
a Cantavèniri, avvucatu e amicu,
comu la vita ti fici suffriri.
Nascisti di famìgghia puvireḍḍa,
fìgghia di la misèria e di na matri
ca travagghiava n casa, mischineḍḍa;
ḍḍu picca arriva sulu di tò patri.
Cchi maritu c’avisti a sìdici anni!
un omu jucaturi e vicariotu
di nomu Jachinazzu, un malacarni
ca di tò fìgghia si jucò la doti.
Tu ppi la ràggia (fu daveru troppu!)
quasi ca l’ammazzavi. E la galera
fu casa tò ppi na misata. E ddoppu
finiù ca ti mpiegasti a-ccammarera.
Lassi la tò Licata, vai m-Palermu.
Ti metti ncinta un fìgghiu di patruni.
Iḍḍu ti porta, nòbbili di nfernu,
a dòrmiri e campari gnuni gnuni.
Quanti misteri, Rosa, avisti a fari!
vìnniri ficudìnnia e babbaluci…
Ma tannu tu ddicidi di mparari
a scrìviri. E sbucciava la tò vuci.
Tu ti ricordi quannu, sacristana,
facisti nnamurari a ḍḍu parrinu?
«Pòvira sugnu, sì! ma no buttana»
pinzasti. E un trenu fu lu tò distinu.
Ḍḍu trenu ti purtò nzinu a Firenzi.
E la famìgghia vinni appressu a tìa.
È tempu di duluri e di spiranzi.
Mori tò patri. Nasci la puisìa.
Firenzi! c’è Manfredi, lu tò amuri.
È tempu di vuscari quattru sordi,
è tempu di scurdari lu duluri.
Spunta lu primu ddiscu ccu Ricordi.
È tempu di vidiri lu tò nomu
nzèmmula ccu Buttitta e Dàriu Fo.
Si gràpinu li porti di Milanu
a ḍḍa riggina ch’è la vuci tò.
All’ùrtimu turnasti ccà, nni nuàtri,
nun serva cchiù… Tu sì na granni artista!
Nfuḍḍìscinu li chiazzi e li tïatri,
nfuḍḍìscinu li genti a la tò vista.
Finisci ccà la storia, lu tò cantu,
ssa vita tò di paradisu e nfernu,
ma la tò forza, ma lu tò talentu,
càmpanu ancora ccà di stati e mmernu.
Rosa Rosa di te, per te, voglio cantare/ le vicende di una vita di dolore/ che insieme fa piangere e sognare/ perché le tue pene partorirono onori./ Penso con quante lacrime e languore/ tu raccontasti prima di morire/ a Cantavenere, avvocato e amico,/ come la vita ti fece soffrire.// Nascesti da famiglia disagiata,/ figlia della miseria e di una madre/ che lavorava in casa, poveretta;/ quel poco proviene solo da tuo padre.// Che razza di marito hai avuto a sedici anni!/ un uomo giocatore e malandrino/ di nome Jachinazzu, un mascalzone/ che si giocò a carte la dote di tua figlia.// Tu per la rabbia (fu veramente troppo!)/ quasi che l’uccidevi. E la galera/ fu casa tua per un mese circa. E dopo/ finì che ti impiegasti come persona di servizio.// Lasci la tua Licata, vai a Palermo./ Ti mette incinta un figlio di padrone./ Lui ti conduce, nobile d’inferno,/ a dormire e vivere in ogni dove.// Quanti mestieri, Rosa, hai dovuto fare!/ vendere fichidindia e lumache…/ Ma in quel tempo tu decidi di imparare/ a scrivere. E sbocciava la tua voce.// Tu ti ricordi quando, da sacrista,/ hai fatto innamorare quel prete?/ «Povera sono, sì! ma non prostituta»/ pensasti. E un treno diventò il tuo destino.// Quel treno ti portò sino a Firenze./ E la famiglia venne dietro a te./ È tempo di dolori e di speranze./ Muore tuo padre. Nasce la poesia.// Firenze! c’è Manfredi, il tuo amore./ È tempo di guadagnare quattro soldi,/ è tempo di dimenticare il dolore./ Nasce il primo disco con Ricordi.// È tempo di vedere il tuo nome/ insieme con Buttitta e Dario Fo./ Si aprono le porte di Milano/ a quella regina che è la voce tua.// Infine sei tornata qui, da noi,/ non più serva… Tu sei una grande artista!/ Impazziscono le piazze e i teatri,/ impazzisce la gente alla tua vista.// Termina qui la storia, il tuo canto,/ codesta vita tua di paradiso e inferno,/ ma la tua forza, ma il tuo talento,/ vivono ancora qui d’estate e inverno.//