IL GATTOPARDO DOPO SESSANT’ANNI
(Gabriella Maggio)
Sessant’anni fa è morto Giuseppe Tomasi di Lampedusa e l’anno dopo Feltrinelli pubblicò Il Gattopardo, che vinse il Premio Strega. Oggi pochi leggono integralmente il romanzo e si accontentano di etichettarlo con stucchevoli clichè, estrapolati grossolanamente dalle sue pagine, e di vedere il film di Luchino Visconti senza riflettere sui diversi linguaggi di letteratura e cinema. Eppure ricostruire le vicende della pubblicazione del romanzo, del suo grandissimo successo di pubblico, delle divisioni tra i critici più noti del tempo, soprattutto dopo il conferimento del Premio, aiuta a ricostruire il clima letterario della fine degli anni Cinquanta ed i condizionamenti ideologici della Repubblica delle Lettere, che aveva fissato un paradigma di valori neorealistici sui quali pretendeva di giudicare le opere. Viene spontaneo ricordare le Querelle della seconda metà del ‘500 incentrate sulla Poetica di Aristotele, eletta a modello per gli scrittori, ed il tormentato travaglio di Torquato Tasso durante la composizione della Gerusalemme Liberata. Così è altrettanto interessante ripercorrere il cammino politico che portò alla realizzazione del film di Visconti che avrebbe dovuto “inserire la vicenda del romanzo nella situazione politica e sociale della Sicilia di allora” ( sono parole di L.Visconti) per formulare quel giusto giudizio storico sul Risorgimento che il romanzo non dava. Ma gli esiti del film furono diversi da quelli dichiarati all’inizio dallo stesso Visconti, perché il regista ricalcò l’elegia del passato perduto, mettendosi sulla stessa lunghezza d’onda del romanziere al quale l’accomunava l’appartenenza al ceto aristocratico. Queste cronache culturali sono ricostruite sui documenti da A. Anile e M.G. Giannice in “Operazione Gattopardo” , edito da Le Mani di Genova nel 2013. Il Gattopardo è il canto funebre dell’aristocrazia siciliana osservata dall’interno, da un aristocratico che ne ha vissuto dolorosamente la crisi un secolo dopo le vicende raccontate nel romanzo, nell’ulteriore imborghesimento segnato dal passaggio dalla monarchia alla repubblica all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Anche l’autore come il suo protagonista Fabrizio crede di essere un epigono: Perché il significato di un casato nobile è tutto nelle tradizioni, nei ricordi vitali; e lui era l’ultimo a possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie…Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto (parte VIII, p.241). L’interesse per la storia dell’aristocrazia non abbraccia nelle intenzioni di Tomasi che essa stessa e quanti ad essa si uniscono come i Sedara, che rappresentano il ceto emergente che avrebbe ad essa fornito i mezzi economici per mantenere una posizione sociale di rilievo nella terra dove per secoli aveva spadroneggiato, guadagnandone al tempo stesso come ricompensa un posto adeguato. Non affronta le agitazioni dei contadini che vogliono la terra nell’Ottocento come negli anni ‘50 del ‘900: “ Padre Pirrone spaziava nelle future inevitabili confische dei beni ecclesiastici…e quando il più giovane degli Schirò ebbe l’impudenza di dire che forse così alcuni contadini poveri avrebbero avuto il loro fondicello, la sua voce s’inaridì nel più deciso disprezzo”( parte V, p. 193). L’opera letteraria va esaminata secondo criteri letterari . E da un punto di vista letterario Il Gattopardo è una grande opera di un grande lettore ed estimatore della letteratura europea. Pur distaccandosi nettamente dai canoni neorealistici, Il Gattopardo non è sicuramente un’opera che si attarda su un gusto veristico ottocentesco, come potrebbe indurre a credere una lettura parziale.Rientra nel realismo problematico del ‘900, nell’area del modernismo nella quale si collocano autori come Svevo. La vicenda del principe Fabrizio e della sua famiglia abbraccia cinquant’anni dal 1860 al 1910, è narrata in otto quadri, chiamati parti dall’autore, con lo stesso occhio distaccato e talvolta ironico, perché consapevole della fine imminente di quel mondo. Emblematico al riguardo l’incipit :”Nunc et in hora mortis nostrae” ( parte I) e l’explicit: ”Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida”( parte VIII). Episodi fondanti il Risorgimento, come lo sbarco di Garibaldi e il plebiscito, ed episodi personali sono messi sullo stesso piano e giudicati dal punto di vista dei vari personaggi. La descrizione di quel mondo, uomini e ambienti, non è testimonianza di un aspetto della realtà finalizzata alla sua conoscenza ed alla enucleazione delle sue leggi, secondo un assunto verista. Ma la descrizione sottolinea l’indecidibilità del reale e la fuga del personaggio nelle proprie convinzioni che gliene impediscono la comprensione, come accade a Concetta, preda dell’impeto rabbioso dei Salina, o negli studi di astronomia del principe Fabrizio, ore assorte nell’astrazione dei calcoli e nell’inseguimento del’irraggiungibile; ma queste ore potevano davvero essere collocate nell’attivo della vita ? L’atmosfera assolata dei paesaggi siciliani non scandisce la giornata di duro lavoro come nelle narrazioni dei veristi, ma un atteggiamento contemplativo misto di sensualità e consapevolezza della difficoltà, se non dell’impossibilità, dell’agire pianificato. Ad alcuni come al Principe manca la forza morale per agire perché già vede l’azione come vana, destinata alla fine, in altri l’agire è soltanto un bieco strumento del proprio tornaconto che li spinge a fingere di avere degli ideali, come Sedara e Tancredi. Personaggi molto simili se si notano le loro azioni, al di là della diversità del fascino e dello stile personale. La narrazione allude con convinzione ad un perenne moto di cambiamento inarrestabile e trascinante. Si potrebbe a questo punto riprendere l’assunto verghiano della fiumana del progresso della prefazione al Ciclo dei vinti. Ma nel Gattopardo manca un elemento fondamentale : il progresso. Della grandiosa rappresentazione delle stratificazioni sociali, dal povero pescatore alla duchessa, all’onorevole, all’artista, resta il gorgo rapinoso indifferenziato che sopraffà l’unico mondo che l’autore conosce per esperienza diretta e che ama con affetto sincero per quello che è. Il romanzo vuole serbarne un ricordo dolente attraverso il quale filtra il suo significato autobiografico.