U’ PUPU A’ BANNERA
(Francesco Paolo Rivera*)
Il 15 gennaio 1940, subito dopo pranzo, un terremoto sussultorio, con epicentro Ustica, di modesta intensità anche se di lunga durata (alcuni “lunghissimi” secondi), scosse Palermo e Comuni limitrofi. Pochi i danni nella Città nuova, qualche cornicione caduto, vetri rotti, mentre nella vecchia Città molti i danni alle vecchie case. Un morto (forse un carabiniere) a Porta Nuova, per la caduta di un vecchio muro, e una cinquantina di feriti fortunatamente lievi.Una decina di giorni dopo, con una lunga scala (di circa 10 mt.) appoggiata sullo spigolo del fabbricato alla via Maqueda in angolo con via Giuseppe Patania, un Vigile del Fuoco (?) assicurava su una piccola mensola incastrata in detto spigolo una statuetta in marmo, che per effetto dell’evento tellurico rischiava di cadere. Alla domanda “ma che cosa stanno facendo?” … la risposta “rimettono a posto u’ pupo a’ bannera”! Che cosa è il Pupo in questione? Anche per le dimensioni della statuina e per l’altezza dalla strada, pochi la conoscevano. E’ un putto in marmo cinquecentesco, di autore sconosciuto, che ornava il Palazzo di proprietà della storica famiglia dei notai Lionti dalla seconda metà del 1800, ma precedentemente di proprietà del protomedico (1) Vincenzo Tantillo. Il puttino sorregge una bandierina in ferro con asta e uno scudo con i simboli araldici del casato dei Tantillo: una mano tra due stelle, con la scritta sul basamento in latino “En qui tant potuit” e le iniziali “G.V.T.” (Giovanni Vincenzo Tantillo). Si troverebbe esposto, dopo un restauro riparatore dei danni subìti a seguito di un furto, nella Galleria interdisciplinare Regionale della Sicilia.Il sito della Bannera, che partendo dalla Piazza del Capo si prolungava fino alla piazza San Giacomo La Marina (di fronte alla Cala), nel XVI secolo era costituito dalla strada che si allargava in prossimità di quella che nel 1600 divenne “la strada Nuova” (via Maqueda) fino a raggiungere la via Giuseppe Patania e che fu divisa in due tronchi: una parte (quella verso il quartiere del Capo) prese il nome di via S.Agostino e l’altra parte, quella verso est nel quartiere della Loggia, che prese il nome di via Bandiera. Tale suddivisione si ricava da un contratto di appalto in data 23 agosto 1600 per notaio Andrea Sinaldi da Palermo, mediante il quale il maestro Giuseppe Cannarozzo – faber murator – si obbligò col Senato palermitano di limpiare bene e diligentemente le strade di Palermo servendosi di 4 carrozzoni tirati da quattro cavalli o da 4 muli. Tra le strade che il maestro Cannarozzo si obbligò di curare affinchè venissero spazzate e innaffiate periodicamente vi era via Bandiera. I limiti territoriali sono segnati nel contratto: da un lato piazza del Capo e dall’altro lato piazza San Domenico, quindi anche quel breve tratto di strada che dalla punta di via S.Agostino si estendeva fino a piazza del Capo era compresa la via Bandiera. (2) Perchè, la via Bandiera, che ospitò parecchi palazzi nobiliari, assunse tale denominazione? Alcuni autori (3) lo attribuirono alla bandiera che il putto sull’angolo della casa del protomedico Tantillo reggeva in mano. Ipotesi sicuramente non convincente in quanto il puttino è opera del XVII secolo e reca lo stemma della famiglia Tantillo; la famiglia Tantillo si insediò in quel sito nel 1590 e nella carta topografica della città di Palermo incisa da Matteo Florimi (4) intorno al 1575 risultava, già a quell’epoca, indicata la via Bandiera . La casa di Matteo Termine, maestro giustiziere e capitano generale delle galere (5), venne edificata dalle fondamenta nel 1573 nella via denominata “Bandiera”. In un atto notarile datato 14 luglio 1437, con il quale Margherita Geremia vendette a Vincenzo Di Bologna “un censo annuo di 4 once” sopra un tenimento di case possedute da Nicolò di Faraone in contrada Bandera, e che con atto per notaio Matteo Fallera del 3 luglio 1518 lo stesso tenimento di casa si dice sito in vico de la Bandera. Nel 1590 Valerio Rosso (storico siciliano) scrisse che la Chiesa di San Marco dei Veneziani è nella strada della Bandiera. Si ipotizzò inoltre
– che in tale strada, che in origine era detta “di Militare” perché vi erano gli insediamenti dalle truppe poste a difesa del “Castello”, venivano apposti vessilli identificativi dei vari reparti militari (6); ipotesi improbabile in quanto gli insediamenti erano costituiti da baracche e attendamenti e non da caserme;
– che il nome derivasse da un vessillo identificativo del potere, che sventolava dalle finestre del palazzo di Matteo Termine, Maestro giustiziere ai tempi di Federico II. Ma non risulta storicamente, che tale carica comportasse un vessillo in segno della sua autorità, anche se è accertato che ai tempi di Federico II, la casa del Termine non era stata ancora costruita in quella via (essendo stata edificata nel 1573).
Pertanto si può escludere che il nome “Bandera, Bannera o Bandiera” derivi dall’esistenza del Putto, mentre tale denominazione resta un mistero.
Nella strada Bandera, nei secoli XVII e XVIII, erano ubicate molte botteghe di generi alimentari ma particolarmente botteghe di “confettiere e pastizzeri”.
In una di queste botteghe Giuseppe d’Alesi il “filaloro” (7) che nel 1647 capitanò la rivolta contro gli Spagnoli, uccise il capo popolo Pietro Pertuso (reo di avere fatto fallire gli accordi di mediazione che egli aveva assunti con il Vicerè spagnolo (8)) con tre stoccate e ordinò al sotto pasticciere di mozzare il capo al morto con il coltello con il quale tagliava le torte.
In via Bandiera aveva la sua bottega di confettiere Mariano La Rosa che nel 1717 fu tra i capi popolo che costrinsero Vittorio Amedeo di Savoja ad abbandonare l’Isola.
Si racconta che i confettieri di questa via, nel 1735, sul lato della via Maqueda, per onorare il nuovo Re cattolico Carlo III (9) innalzarono un arco trionfale.
E per finire una curiosità:
nel XVII secolo, nel tratto di strada che della via Bandiera, partendo da San Domenico si innesta nella via San Basilio, e che un tempo era denominata “strada del Pizzuto” visse il protomedico Paolo Pizzuto (10). Entro le mura del palazzo Pizzuto esisteva una torre saracena, che a seguito dei danni subìti lungo il corso dei secoli venne ricostruita nella prima metà del XIX secolo. Nella struttura originaria fu scoperta, nel maggio 1683, una iscrizione che venne riprodotta con un disegno a penna dal cappellano della Chiesa di Sant’Eulalia (esiste ancora?), don Giuseppe Caldara. Quest’ultimo trasmise tale disegno a don Vincenzo Auria (11) che lo inserì in un manoscritto intitolato “Cose di Palermo”. Il manoscritto fu donato poi al canonico Antonio Mongitore e nel 1700 pervenne alla Biblioteca Comunale di Palermo.
In tale documento, (riprodotto nella foto) redatto presumibilmente in caratteri ebraici quadratiche (12) si nota, nella parte centrale in alto, un cerchio sul quale sono infissi dei chiodi, il cui significato non è stato decifrato. Si tratterebbe forse di segni cabalistici?..
(1) il protomedico era il funzionario pubblico (non necessariamente medico) preposto all’attività sanitaria, una specie di assessore alla sanità, ma col compito di valutare la effettiva capacità di coloro che esercitava la professione di medico e di speziale.
(2) il contenuto del predetto contratto di appalto è interessante perché dimostra la cura che la pubblica amministrazione poneva per tenere pulita la città, senza gravare i cittadini di pesanti balzelli;
(3) il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni (1550-1627 – Palermo Restaurato), il cav. Gaspare Palermo (Guida istruttiva – 1816) e il canonico Antonio Mongitore (1663-1743 –Notizie varie da Palermo);
(4) detto anche “Florimj” o “Florini” o “Florino” (1540-1615) noto editore, calcografo, incisore, xilografo e cartografo attivo a Siena (“Matteo Florimi formis”, “M.F.”;
(5) tale carica venne istituita durante la dominazione normanna presumibilmente intorno al 1140, si trattava del capo assoluto di tutto l’apparato giudiziario del Regno, l’autentico arbitro – dopo il Re – del potere giudiziario al quale era affidato il controllo su tutto il territorio;
(6) Francesco Maria Emanuele Gaetani marchese di Villabianca
(1720-1802) (Palermo Oggigiorno);
(7) chi riduce l’oro e l’argento in filo avvolgendolo nella seta); (8) il marchese Pedro Fajardo di Los Velez,
(9) prima Carlo di Borbone duca di Parma e Piacenza col titolo di Carlo I, poi Re di Napoli e di Sicilia (senza altro titolo) e infine Re di Spagna col titolo di Carlo III.
(10) fu uno dei medici più famosi del suo tempo, fondò nel 1645 l’Accademia de’ Jatrofisici e di Medicina e fu Regio Consultore per la sanità.
(11) di famiglia nobiliare di origine genovese (si diceva discendente dai Doria). Quando il Porto di Palermo era quello più importante del Mediterraneo, esisteva una grossa presenza di mercanti genovesi, il cui centro di aggregazione era la Chiesa di San Giorgio dei Genovesi. Appassionato cultore della storia siciliana, poeta, erudito, letterato (1625/1710) svolse l’attività forense, e fu anche archivista reale;
(12) presumibilmente si tratterebbe di una particolare scrittura nata, intorno al X secolo, in conseguenza dei contatti tra le due comunità, attive specialmente in territorio iberico, di ebrei e di musulmani.
*L.C. Milano Galleria