I LIBRI E LA BAMBINA
(Carmelo Fucarino)
Dal Washington Post
La news rimbalza virale attraverso un articolo di Samantha Schmidt sul Washington Post dell’11 Jan 2017: «Introducing Daliyah, the 4-year-old girl who has read more than 1,000 books» (online «a proposito di Daliyah di 4 anni che ha letto più di mille libri»). È la bambina simbolo dell’America che si avvia a diventare maggioranza, nonostante il wasp Trump, madre afro-americana, padre messicano, parlante spagnolo, lingua vicina al sorpasso dell’inglese. È il momento di visibilità di Daliyah Marie Arana, nel lancio dei network, dal locale fino al secondo giornale statunitense, quello della capitale. La prima donna direttrice della gloriosa Library of Congress, di pari funzione della nostra Biblioteca nazionale di Firenze, Carla Hayden, afro-americana pure lei come Obama, che l’ha nominata, la elegge “bibliotecaria del giorno”. A Gainesville, nella profonda Georgia, una bambina dimostrava esibendo la tessera della biblioteca di aver letto più di mille libri, a partire dai due anni, quando aveva imparato a leggere, a calcolo elementare quasi tre al giorno negli ultimi due anni. Perciò il dubbio di Alberto Flores D’Arcais sul suo «invidiabile e forse discutibile record». Quella bambina dal casco di capelli ricci coronati da un nastrino rosa, siede con sussiego radioso alla scrivania di direttrice della prima biblioteca americana. Perché mentre era ancora nel ventre della madre Haleema, aveva già appreso i racconti che ella leggeva agli altri fratellini e così ancora nei successivi giorni dell’infanzia. Poi il progetto “1,000 Book Before Kindergarten” e Haleema Arana ha l’idea di contare i libri che la figlia aveva letto (Haleema got the idea to start counting the number of books Daliyah read). Sì, è un numero eccessivo se si rapportano ai voluminosi racconti del maghetto Harry Potter. Bisogna tener conto però del tipo di libri, quelli citati dalla madre ad esempio sono la serie di “Pigeon” and “Elephant and Piggie” e quelli dei dinosauri, pur con la concessione anche di un testo più alto: «per darle una sfida — e per soddisfare il suo amore per i libri — sua mamma le diede un testo di livello universitario, un discorso chiamato “The Pleasure of Books” di William L Phelps. Daliyah ha imparato a leggere il discorso così bene, pronunciando parole come “punctiliousness” e frasi come “annihilates formality,” che sua madre ha pubblicato un video della sua lettura su YouTube» (To give her a challenge — and to cater to her love of books — her mom gave her a college-level text, a speech called “The Pleasure of Books” by William L Phelps. Daliyah learned to read the speech so well, pronouncing words such as “punctiliousness” and phrases like “annihilates formality,” that her mother posted a video of her reading it on YouTube). Questa la notizia. Si può dubitare dei numeri, senza sparare insulti, definendoli categoricamente «bufala a stelle e strisce». Sorprende la polemica acrimoniosa e “gridata” in un uomo di lettere e di cultura, soprattutto insegnante in scuole difficili di periferia. Perché Marco Lodoli attacca con un titolo (suo?) perentorio: «Non troverà la felicità tra le pagine mandatela a giocare in cortile». C’è da riflettere già sul termine culinario e consumistico di “felicità”. Tutto oggi deve avere come fine la felicità, diciamo pure all’epicurea come “abolizione del dolore”. In un insegnante l’assioma edonistico riguardo alla lettura sorprende molto. Eppure, al di là delle distorsioni, se di fine edonistico si vuol parlare, ritengo che l’unico modo per raggiungere un certo “Eden”, un paradiso inventato, un palliativo alle brutture del reale, potrebbe essere proprio la lettura ad indicarcelo. Lasciamo pure uno spazio alla fantasia. Certo, non la letteratura noir, horror e pratica quotidiana dei best-seller del brutto e del male. Ritengo che se in tutte le scuole si imponesse, come teme per la “dolce creatura”, che gli alunni fossero «ingozzati di libri, come un’oca all’ingrasso» (torniamo al culinario e alla crudeltà del foie gras francese), diciamo più delicatamente, “invitati” con premi e inganni a leggere un libro, non dico al giorno, ma almeno a settimana, avremmo altra società giovanile. O no? Ma per esperienza diretta alcuni colleghi proff non leggono neppure loro, neppure quelli di lettere. D’altronde nelle scuole e per alcuni insegnanti siamo all’analfabetismo di ritorno, senza le quadriennali verifiche di capacità, come negli States. E che danno produsse alla società il padre Mozart con i giovani figli geniali, Wolfgang e Nannerl? Sfruttò la loro genialità? Figuriamoci se questo metodo desse risultati su tutti i mediocri scolarizzati. I nostri insegnanti in trincea sanno che l’amore per i libri e la lettura non si possono imporre, tuttavia se si accoglie come principio che leggere non dà la “felicità”, che sono più comunicativi e meno faticosi faccine e tortine, la minor fatica per il più grande profitto, allora sarebbe meglio chiudere le scuole e mandare tali professori a fare altro più proficuo mestiere. Si cita Rousseau, quello del buon selvaggio e dell’Émile ou De l’éducation reazionaria. Io potrei risalire riguardo alla polemica sulla scuola e sull’educazione a tempi più antichi, tralasciando il peso di Platone ed Aristotele e la scholé greca, come pausa dal lavoro, per giungere a tempi più esemplari, alla fine della traiettoria della civiltà romana, che impiantò il dibattito sulla questione dell’età scolastica, discussa da Plinio, Tacito, Frontone, dall’eccitante Petronio, fino alla sintesi di Quintiliano ed Agostino, in margine alla dialettica sulla decadenza o sulla corruzione dell’eloquenza (De causis corruptae eloquentiae). Già allora si poneva la questione se andare a scuola a cinque o a sei anni, si analizzavano e discutevano accesamente i metodi pedagogici e didattici, quello del maestro di Orazio, il plagosus Orbilio, opposto alla pedagogia dei crustula, i biscottini (Serm. I, 1. 25-26. ut pueris olim dant crustula blandi doctores, elementa velint ut discere prima). L’età standard è un’invenzione sociale, una convenzione come d’altronde la stessa scuola pubblica moderna, dottrinaria e istituzionalizzata, sempre in mano ai governi da quello fascista all’eterno democristiano. Fu la geniale invenzione del creatore dei gabinetti pubblici, da lui detti perciò vespasiani. Mirava a formare e selezionare i suoi sudditi dirigenti. Sono processi legati alla normativa societaria. Perciò anche una barzelletta da salotto la precisa demarcazione di “età del cortile” e di età del carcere scolastico, sì, perché a ciò mira tale distinzione di età felice, quella innocente e felice del “buon selvaggio” roussoiano, e quella gravosa del peso della ragione. Nessuna pedagogia seria prenderebbe per norma questa scissura netta tra due età della vita, tutto pedate o tutto libri. La psicopedagogia e l’epistemologia genetica di Jean Piaget, quello che nel 1951 proclamava Il diritto all’educazione nel mondo attuale, sono ormai obsolete, ma il principio dell’apprendimento dal ventre della madre, come è certa la mamma americana, non è che sia assolutamente peregrina. La formazione, la creazione di un individuo autonomo di corpo e mente, è complessa e lunga, passa attraverso l’esperienza e l’educazione, il codice genetico, ma anche l’apprendimento. E la piccola dolce Daliyah non ha bisogno del Telefono azzurro delle nostre istituzioni, perché proprio il suo volto radioso non denunzia una “violenza spaventosa”. Peccato che contro i circhi mediatici dei micro praticanti che imperversano nelle nostre TV gli appelli non siano tanti e i telefoni azzurri e bianchi tacciono rumorosamente. Conosco giovani che da bambini furono premiati con viaggi per la loro vocina e ne parlano come una esperienza come le altre, senza traumi esagerati. E tutti ricordiamo con emozione il neorealismo della piccola Tina Apicella di Bellissima del 1951. Era allora il caso simbolo dell’”amore materno”. Ora tutto è regolato dalle leggi dell’edonismo e della minore fatica fisica e mentale. Se un insegnante propone lo sforzo, la tenacia dell’apprendimento i genitori insorgono in nome della difficoltà e del carico. Mettono avanti il pericolo mentale dello stress e il ricorso addirittura allo strizzacervelli. E abbiamo tutti sotto gli occhi i tragici risultati dell’educazione soft ed edulcorata. Siamo al limite di ogni norma di formazione umana. Siamo giunti al concetto che pretendere lo studio, sollecitare i figli a leggere per capire se stessi e gli altri è un accanimento terapeutico, un ingozzare anatre innocenti. Eppure certi cattolici benpensanti sanno bene che se si cade nel vizio opposto, si rischia l’eutanasia. Certo, morte “bella” della società, per ignoranza assoluta e abbattimento di norme legali ed etiche. Ma sempre morte procurata, da “sé stessi”, o indotta da medici “pietosi”. Non tutte le colpe sono dei genitori incapaci, quotidianamente trucidati, la colpa che maggiormente grida vendetta è quella della scuola permissiva e senza idee, di insegnanti senza carisma e senza idee. Se questo è il risultato della caduta delle ideologie.