LA VENDETTA DELLE PALLE DI NEVE

( Carlo Barbieri)

Gira da un pezzo sul web la foto di palle di neve in vendita su un marciapiede di Napoli a tre un euro.  Bene, si è saputo solo adesso che erano con la sorpresa. E la sorpresa l’avevano fornita le parti intime di cinque fratelli, Ciro, Ciccillo, Pasquale, Natale e Gegè Neve, che avevano fatto uno sgarro a Gennaro Spaccanapoli, temutissimo camorrista dei quartieri spagnoli della città partenopea. Non contento di averli fatti fuori, e approfittando di una improvvisa nevicata sulla città, Gennarino aveva deciso di aggiungere al danno dell’eliminazione fisica la beffa della messa in vendita dei loro testicoli ricoperti di neve per ridicolizzarli dopo morti.  Ma il diavolo fa le pentole, non i coperchi…Ora vi racconto.

La sorte volle che uno degli acquirenti delle “speciali” palle di neve fosse Fedele Esposito, detto Fido per la sua abitudine di farla contro gli alberi, o anche Capavota, “testa vuota”. Fedele era infatti lo scemo del quartiere, nato normale ma rovinato da una caduta dal seggiolone. Il seggiolone in verità era bassissimo, ma in quel momento stava sul balcone, e il balcone era al secondo piano di una palazzina. Fedele era finito dritto sulla testa di un camorrista del clan dei Tirolesi, nessuno dei quali aveva parenti più a nord di Caserta, ma erano chiamati così per via dei danni causati dalla coca all’organo a cui gli uomini tengono particolarmente. La testa del Tiroleso si era scontrata con quella del piccolo Fedele con un “crack” che aveva mandato al cervello dell’uomo, che però non era più in grado di riceverla, l’informazione che le vertebre del collo si erano spezzate. Il brav’uomo si era abbattuto al suolo senza né un “a” né un “ba”, con il dito ancora sul grilletto della Beretta cal. 9 parabellum (si vis pacem, naturalmente) con la quale si apprestava a fare fuori Gennarino Spaccanapoli, allora camorrista aggiunto in prova di un clan rivale con un avvenire davanti e la Giustizia già dietro. Gennarino decretò subito che il volo di precisione del bambino era una chiara manifestazione di benevolenza del Santo di cui portava il nome, e da quel momento nessuno potè più azzardarsi ad alzare un dito, o semplicemente mostrare insofferenza o fare battute nei confronti di Fedele: Fedele, ormai “Capavota”, era “cosa di Gennarino” e aveva tutte le libertà, anche quella di piscio di cui si è detto. Fedele si poteva permettere proprio tutto, anche qualcosa che sarebbe equivalso a un suicidio per chiunque altro, come lanciare una palla di neve contro Gennarino Spaccanapoli. E fu esattamente quello che fece quella mattina. Gennarino vide appena in tempo il gesto e si girò di scatto per non essere colpito in faccia, si fece una bella risata, diede una pacca sulle spalle al lanciatore che saltellava tutto contento, gli offrì una sigaretta e si diresse con passo sicuro verso il palazzo di giustizia dove era stato convocato in relazione alla scomparsa di Ciro, Ciccillo, Pasquale, Natale e Gegè Neve. Conosceva “ogni pertuse” del palazzo di giustizia, lui, e due minuti dopo faceva già anticamera davanti all’ufficio del GIP.

– Maroooo… fuori si crepa di freddo, e quaddentro si muore di caldo. E poi dicono che non hanno i soldi per la benzina d’emmachine, evvè?

Il caldo era veramente insopportabile, e Gennarino si tolse il giaccone col cappuccio e se lo mise sotto il braccio. Passò molto tempo, finalmente lo chiamarono: – Gennaro Spaccanapoli!

– Presente, presente… permesso?

L’interrogatorio fu prevedibile e inconcludente come al solito.

– Quelli? Cinque ragazzi d’oro, signor giudice…Io avercela con loro? Io? Epperché? Signor giudice ma lei sta a sentire la gente… Mi creda sono infamità, invidie… Ma no, saranno due mesi che non…

Fu in quel momento che una cosa molliccia e rossastra, grande quanto una noce, scivolò fuori dal cappuccio di Gennarino spiaccicandosi a terra sotto gli occhi di tutti.
La palla di neve si era sciolta, ed era comparsa una palla di Neve. Di Ciccillo Neve per la precisione, come confermò l’analisi del DNA.

Proprio di quel Ciccillo Neve che Gennaro Spaccanapoli chiamava sempre “’O coglione”.

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