IL MASSIMO DI PALERMO RECUPERA CON SUCCESSO JENŮFA

IL TRIONFO DELLA PIETAS SUL MALE

(Salvatore Aiello)

(Foto di Rosellina Garbo)

Coraggiosa  la proposta  del Massimo di Palermo di inserire nella  Stagione  un titolo non di cassetta quale Jenůfa, opera universale di Leoš Janáček che per pura combinazione si impose sulle scene di Brno nel 1904 coeva quindi alla Madama Butterfly recentemente rappresentata sulle nostre scene. Una coincidenza che ci consente di comprendere pienamente quale fosse il panorama  musicale del primo Novecento che pur avendo degli influssi comuni  si distingue  per ispirazione e ricerca altamente diversa; Puccini nel 1904 è già un operista decisamente affermato nella giovane scuola, Janacek in quegli anni si impone in patria come un compositore di grandissimo respiro con un notevole impegno morale e sociale uscendo, consapevolmente dai limiti del naturalismo innalzando il soggetto della sua opera  e la musica ad una categoria epica del vivere e del sentire per cui i suoi personaggi in preda a sconvolgenti passioni, si muovono, si addentrano in una parabola tragica dove miseria, amore, gelosia, morte, complicate parentele convivono. Grazie a Jaroslav Tichy, Janáček conobbe il testo di Gabriela Preissova “La sua figliastra” destinato a diventare il peana del teatro musicale della Moravia pronta alla riscossa e alla appropriazione dell’identità nazionale. Jenůfa é secondo le intenzioni dell’autore “Una donna che attraversa il purgatorio e l’intera gamma delle sofferenze umane e alla fine, abbagliata dalla bontà di Dio e della Sua giustizia, perdona coloro che volevano lapidarla e perfino colei che le ha annegato il  figlioletto. E’ una donna che rimane salda e risoluta nel proprio amore, un amore al quale perfino Dio elargisce la benedizione”. Come se non bastasse, la profonda dedizione al personaggio nacque anche da motivi personali: la malattia e la morte di Olga, l’unica figlia dopo la morte del secondogenito Vladimir, nella cui bara giace l’ultima pagina  dello spartito con la straziante dedica “A te Olga, in memoria tua”. Ad accogliere lo spettatore, su uno sfondo nero, una scena spoglia, essenziale, con tante porte che sembrano gabbie dove l’esistenza è imprigionata alla maniera kafkiana e ivi si consuma una vita arcaica che non consente alcuna intimità col clan che sferzatamente brucia di animosità spesso delirante. In queste gabbie senza speranze di mutare atteggiamenti e sentimenti si ergono prigionieri della loro immaturità i protagonisti pronti e decisi a fronteggiarsi con convinzioni testarde, prevaricanti e spesso senza luce. Questo il punto di vista di Robert Carsen cui va subito il merito di  una regia in consonanza totale con la musica e le indicazioni del compositore, avvalendosi dell’allestimento sobrio di Patrick Kinmonth e delle significative e pertinenti luci di Peter Van Praet, riuscendo favorevolmente ad incastonare la vicenda e a consentirne il racconto con delicata attenzione sino alla scena finale sconvolgente per il clima che la pioggia  dorata redentrice procura; dopo tanta sventura l’acqua ripulisce uomini e cose e come polla di vita avvolge la nuova esistenza che attende Laca e Jenůfa. Sarà vero amore? Jenufa é soltanto il frutto  della vendetta di Laca, geloso ed invidioso del successo di Steva? E Laca sarà invece il rifugio consolatorio per un sogno infranto e il mezzo per rimettere borghesemente a posto la morale  scalcinata secondo il perbenismo rappresentato dalla ruvida Sacrestana nel consesso del villaggio paesano? Il merito dello spettacolo innanzitutto va alla intensa, struggente  prova orchestrale condotta con piglio e precisione dall’inossidabile Gabriele Ferro che  conferisce  grandioso rilievo, permeato da cocenti  accensioni ma anche da sommesse, poetiche liricità senza cedere a bordate di crudo ed eccessivo realismo che avrebbe in qualche modo alterato la fisionomia senza tempo della partitura. Il direttore è capace di dosare timbri e ritmi, sotto la  sua bacchetta questa volta si suona e si canta soprattutto intento  alle ragioni della vocalità strana per la difficoltà  della lingua e del libretto in prosa esaltante il parlato in musica, non a caso si é discusso della melodia del parlato a proposito  dell’opera. Ad assumere il ruolo di autentica struggente protagonista Angeles Blancas Gulin (Kostelnicka Buryjovka)  perché il dramma secondo Hermanes le appartiene di diritto quasi un deus ex machina della vicenda. Nei panni  dell’incombente matrigna, con vocalità densa, acuta, lancinante nel grido, capace di tante tinte ed accensione drammatica si impone per interpretazione, recitazione, sicurezza scenica creando una figura ieratica della Sacrestana combattuta tra impegno morale e amore sincero per la figliastra e con lei Andrea Dankova (Jenůfa) del tutto centrata per le qualità vocali di lirico pieno, emanante fragilità, ansie febbrili, ingenuità, sprovvedutezza, paure, prigioniera del suo sogno, vittima di un disegno superiore e capace infine anche di accenti nobili di perdono; le affiancano, oggi assai rare, due belle e fresche voci tenorili: Peter Berger (Laca) mette a disposizione una voce di chiara espansione, di bel timbro, di smalto squillante dibattuto fra le pieghe del suo malato personaggio mentre Martin Srejma disegna con robusta vocalità uno Steva Buryja  spaccone, superficiale, maschilista, senza cedimenti. Completa il cast Gabriella Sborgi (la Nonna Starenka Buryjovka)  convincente per vocalità ed accenti di saggezza ed equilibrio, e i funzionanti e corretti Viktorija Bakan (Jano), Natasa Katai (Tetka), Italo Proferisce (Starek), Luca Gallo (Rychtar), Valeria Tornatore (Rychtarka), Maria Hilmes (Karolka), Lorena Scarlata (Pastuchyna), Daniela Denschlag (Barena), Giorgio Cannata (Mimo). Di rilievo anche la prova offerta dal Coro istruito da Piero Monti.Una bella ed indimenticabile serata all’Opera, degna dei giorni che furono. Jenůfa é piaciuta al coraggioso pubblico, anche se non numeroso, curioso di affrontare e scoprire  un titolo che ha riscosso giustamente pieno e convinto consenso.

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