La nascita della memoria In onore di Salvatore Salomone-Marino
(Carmelo Fucarino)
Due straordinari compagni di viaggio e di ricerca creativa ebbero comune sorte terrena: entrambi morirono un secolo fa, nel 1916. Giuseppe Pitrè il 10 aprile, Salvatore Salomone-Marino qualche giorno prima. Entrambi per vie e interessi diversi avviarono in Sicilia per la prima volta un’eccezionale attività, amici accomunati dalla stessa professione e dalla stesso desiderio, l’amore per le tradizioni popolari della loro terra. Se i celebri fratelli Jacob e Wilhel Grimm compilarono tra il 1812 e il 1822 le Fiabe (Kinder- und Hausmärchen), fondando la germanistica, i nostri due intervennero più che in campo letterario su un piano di ricerca e codificazione scientifica della voce e della cultura popolare, quella straordinaria profonda estrinsecazione dell’anima che accomuna popoli geograficamente ed etnicamente distanti. Entrambi medici, Salomone Marino, professore di patologia medica a Palermo, Pitrè professore di demopsicologia, termine e cattedra per lui creati per intendere Folklore, coniato con “popolo” e “sapere” dall’inglese William Thoms. (Alberto M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo, Palumbo, 1973). La loro consuetudine di studi e di amicizia li portò a fondare nel 1882 e dirigere in tandem l’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari (A.S.T.P.), rivista trimestrale edita a Palermo dal benemerito editore Luigi Pedone Lauriel e poi fino al 1909 dalla Libreria internazionale Carlo Clausen (la già L. Pedone Lauriel). Essa raccoglieva solo i testi dei canti popolari, ma non mancavano gli studi sulla musica e il canto come rituale di gruppi sociali e qualche accenno di trascrizione musicale. Per la serietà e modernità della struttura fu pilastro degli studi demologici e delle “tradizioni popolari” non solo in Sicilia, ma anche in Italia, se vi collaborarono Isidoro Carini e i Di Giovanni, ma anche Giovanni Targioni Tozzetti, Croce (La leggenda di Cola Pesce), Salvatore Di Giacomo, Michele Barbi, Giovanni Giannini, Gaetano Amalfi. I testi erano raccolti sotto le rubriche Novelle, Miti, leggende; Credenze, Superstizioni, Formole; Usi, costumi, pratiche; Proverbi; Motti, Voci, Lingua popolare; Canti, Poesie; Giuochi, Passatempi, Canti infantili; Indovinelli; Storia del Folk-lore. Era corredata e arricchita dalle sezioni Miscellanea, Rivista Bibliografica, Bullettino bibliografico, Recenti pubblicazioni, Sommario de’ Giornali, Notizie varie. Spigolando dal volume quarto, fascicolo 1, 1885 edizione Lauriel e dal volume undicesimo, 1892, ediz. Clausen), si ha una visione della eterogeneità dei contributi (il gioco della Madonna pollaiola e più stupendo Il gioco del calcio in Pistoia) e delle aree geografiche italiane, ma anche esotiche (Canti popolari albanesi, I matrimoni in Cina, usi nuziali del Nilo, usi funebri degli Abissini, Gli antropofagi del Congo o le superstizioni in Cambogia). Dei due amici e sodali, la fortuna è arrisa soprattutto a Pitrè che ha avuto intestato il Museo e che nell’occorrenza celebrativa ha oggi intestate manifestazioni e convegni. Oscuro e defilato rimane Salomone che pare non meritare riconoscenza per l’appassionato suo fervore di raccoglitore. Eppure non c’è italiano che non conosce la Baronessa di Carini o non rabbrividì in anni che appaiono lontanissimi alle celebri performances di Balistreri, Rusidda a licatisi. Salvatore Salomone Marino nacque nel 1847 nella borgata di Borgetto, ove visse abitualmente. Intrapresa la professione di medico, divenne professore di patologia medica nell’Università di Palermo. La professione gli permise di venire a contatto diretto con il popolo e di ascoltarne canzoni, poesie, proverbi, ma fu la madre la più intima collaboratrice, della quale associò il cognome. Il suo esordio letterario avvenne nel 1867, a soli vent’anni, con la pubblicazione di un lavoro straordinario ed originale, Canti popolari siciliani in aggiunta a quelli del Vigo, raccolti e annotati (Francesco Giliberti editore, Via Montesanto, 17, Palermo). La raccolta era dedicata al padre Vito e alla madre Giovanna Marino, per «compensar le infinite cure, i sacrifizi, l’amore immenso, e più i saggi e virtuosi consigli». Riconosciuta l’unicità della poesia che non poteva non sgorgare semplice e pura fra la natura dell’isola così eccezionale innalzava l’encomio dell’isola: «l’aura stessa ti desta in cuore un alito divino di poesia, ti infiamma la mente, ti schiude al canto le labbra. – Nasce poeta chiunque è figlio di questa bellissima, sebbene infelicissima, terra del sole». Nelle placide sere di estate e al lume della luna, nasce quella poesia «cantata con quella armoniosa melanconia che gli Arabi ci lasciarono e che il popolo di tutta l’isola ha ormai fatta sua» (pp. V-VII). Perciò volle completare la “splendidissima corona” di circa mille e trecento canti popolari, intrecciata da Lionardo Vigo nel 1857, aggiungendovi «750 canti in questa provincia di Palermo, dove il Vigo non fu a spigolare», ne ha accettata la “partizione metodica”, anche se “ristretta” e rimpastata”. Ha seguito nell’ortografia la pronunzia della provincia di Palermo, ha rifiutato canti che non fossero realmente cantati dal popolo. Ha fatto i confronti con i canti popolari dei dialetti italiani e con quelli illirici e corsi, greci e “allemanni”. Concludeva con l’invito a «gustare la dolcezza, la soavità e la delicatezza delle immagini della poesia del popolo di questo estremo d’Italia». Fra i collaboratori per Borgetto ricordava “la mia affettuosa madre Giovanna Marino”, annotava anche collaboratori di Ribera. La selezione comincia con Lodi delle bellezze dell’uomo e della donna (Turiddu, Giuvinutteddu, Binidittu, etc.). Così: «Di zuccaru vi fici vostra matri; / di zuccaru la vesta vi mittiti; / zuccaru è la finestra unni affacciati, / di zuccaru la seggia unni siditi». Oppure «Lu suli affaccia e m’abbampa lu cori». Pensate: «Scorcia di nucidda, Oh quant’è bedda chista piccirida». E pure, «Siti cchiù bianca assai di la quacina, / chi si metti ‘nta l’acqua e allura adduma». Oppure «Siti cchiù bianca vui di la ricotta». E per chiudere fra tante perle: «Du’ scocchi russi a ssi masciddi aviti, / Li trizzi cu li pedi vi tirati. / Quannu a la spadda di lu ziti siti, / lu re e lu vicerè vi su criati». È impossibile seguire la ricchezza e la bellezza di tanti canti nella loro complessità e varietà, attraverso il desiderio e la speranza, l’amore e i baci, il canto e le serenate, la dichiarazione e i saluti, le gelosie e i matrimoni, la partenza e la lontananza, l’abbandono e il tradimento, la morte e il carcere. E poi i canti sacri, morali e per città e popoli, i canti satirici e gli scherzi e indovinelli fino alle leggende. Grande visibilità diede ai canti da lui raccolti l’eccezionale artista interprete del canto siciliano, sola e senza eredi, la spericolata e trascinante Rosa Balistreri, che incantò i nostri anni belli con Nun dormu né riposu a tia pinsannu (Desiderio, speranza, n. 123, Mi votu e rivotu), Quantu basilicò cc’è ‘nta ssa grasta!, Vinni a cantari ad ariu scuvertu, Stanotti la me’ casa fu lu celu (Canto, serenate, nn. 228, 265, 285), Morsi cu’ morsi, Lassarimi accussì nun ti cunveni, M’arrusicu li gradi e la catina (Canti del prigioniero, nn. 558, 577 e 591). Pro domo mea, l’antica provenzale amor de lonh raccolta a Ficarazzi: «Acidduzzu di Prizzi, cala, cala, / Ca m’ha’ fattu pirdiri la vintura; / Quannu passu di ccà, cu’ m’arripara? / M’arriparati vui, bedda signura. / Mi l’ha fattu un fracassu a du’ sulara,/ Mi l’ha’ pututu fari ‘ntempu un’ura. / Oh chi duluri! O chi spartenza amara! / Cu’ sa la prima sira unni mi scura!» (Partenza, Lontananza, n. 473). Della sua vasta e articolata produzione possiamo qui ricordare solo i titoli: Aneddoti, proverbi e motteggi illustrati da novellette popolari siciliane, Canti popolari siciliani, Canti popolari siciliani trascritti nei secoli XVI, XVII e XVIII, Carlo Quinto imperatore nella leggenda siciliana, leggende popolari siciliane in poesia. La onnipotenza dei proverbi dimostrata da una novelletta popolare siciliana, La rivoluzione siciliana del 1848-1849 nei canti popolari, Lu vespru sicilianu, storia popolare in poesia, Spigolature storiche siciliane dal sec. XIV al sec. XIX. Particolare angolazione assumono le tradizioni popolari in una lettura della storia: La storia nei canti popolari siciliani. Studj (seconda edizione, Palermo, Francesco Giliberti editore, 1870, prima I 1868) a partire dai Normanni e giunta fino ai suoi giorni. Certamente La baronessa di Carini, Leggenda storica popolare del sec. XVI in poesia siciliana con discorso e note (Palermo, tipografia del Giornale di Sicilia 1870; nel 1873 editore Luigi Pedone Lauriel), dedicata alla madre, che lo aveva vegliato nella sua «recente perniciosissima infermità», assurse a celebrità per merito dello sceneggiato RAI, L’amaro caso della baronessa di Carini, con Ugo Pagliai e Janet Agren, Adolfo Celi e Enrica Bonaccorti nel 1975, e l’altra edizione del 2007 con Vittoria Puccini e Luca Argentero. Ancora oggi di grande interesse è il saggio introduttivo di 67 pagine della lagrimevole storia della baronessa Laura Lanza di Trabia, nata nel 1529 e tragicamente morta a Carini il 4 dicembre 1563. Celebre la Ballata su testo di Otello Profazio, musica di Romolo Grano, cantata da Luigi Proietti. Tutta la natura si associa e vive nell’arte di questo anonimo poeta del quale Salomone indica le fonti in Dante e nei classici antichi (strabiliante per me la scoperta del paraclausìthyron, greco παρακλαυσίθυρον o lamento dietro la porta chiusa a Borgetto, n. 165, Gràpimi, bedda). Ad epigrafe e conclusione del suo progetto di memoria collettiva di un popolo, radice ed essenza del presente per un patrimonio da affidare al futuro: «A questa classica Terra nostra, maestra ed emula di Grecia in civiltà, vincitrice di Atene e Cartagine, e sol vinta da Roma, ma gloriosa cadendo con divino Archimede; a questa Terra, grande eziandio nell’abisso della sventura, ingiuriata e dileggiata da chi è nato pur ieri; molti serti sono stati strappati dal furore, o dall’insania, o dall’invidia dell’uomo. A noi incombe un sacro dovere, di conoscer noi stessi e le nostre cose, e farle conoscere; di raccogliere le gloriose corone degli avi, e ridar loro lo splendore che affoscato era dall’oblio» (introd., p. 73).E da allora ad oggi, dopo qualche vampata di popolarità personale di cantanti di folclore, le tenebre sono calate su questo patrimonio, cancellato dal dominio assoluto della musica americana.