E NE L’IDOLO SUO SI TRASMUTAVA*

L’opera di Giuseppe Cuccio : sculture e dipinti

(Gabriella Maggio)

Nel 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri non è possibile sfuggire al Poeta che si pone come cardine di tutta l’arte successiva, non soltanto letteraria. Da poeta concentrico qual è non può però fornire modelli all’eccentrico mondo contemporaneo. I suoi significati sono nei fatti, nelle opere composte. Sorge spontaneo perciò chiedersi il senso del titolo scelto per la mostra di Giuseppe Cuccio. Il titolo della mostra viene da una suggestione/ reminiscenza  dantesca suggerita dalla forza espressiva delle opere di Giuseppe Cuccio. Come il Poeta è fabbro del parlar materno, allo stesso modo l’artista è fabbro, piega la materia ai suoi significati.  L’eco dantesca si spoglia naturalmente  dei suoi significati religiosi e teologici e ne assume altri interamente  terreni e umani. Sebbene le opere dell’artista non si ispirino direttamente a Dante,  la citazione del v.125 del c. XXXI del Purgatorio ha la funzione di dichiarare l’aspetto interiore e intimo del suo atto creativo, alluso nella parola idolo, come rappresentazione di un oggetto agli occhi e alla mente, facendo venire alla luce il processo dialettico, faticoso e per certi versi misterioso tra idea e materia, che precede la realizzazione  della forma artistica. È dunque intrinsecamente dantesca l’arte di Giuseppe Cuccio, che dalla materia va oltre la materia e, con termini ancora una volta usati dal Poeta, va incontro a tanto oltraggio (Paradiso c.XXXIII, v.57). Nella materialità, necessariamente limitata, della pietra, della creta, del foglio, del colore l’artista vede già la forma; ne esplora la fecondità che ora lo ostacola ora lo libera, ora lo  costringe ora docile asseconda la sua mano che crea, trasmutandosi e già  trasmutata; ne comprende in un solo tempo la sua intrinseca duplicità, che è insieme materiale ed intellettuale:  la forma, emergendo dal profondo di sé, attraversandone le stratificazioni, consegna i suoi  significati all’oggetto plasmato. Per realizzare le sue opere Giuseppe Cuccio  non prende l’avvio  da un modello reale, e neppure da una mediazione simbolica. Per lui, artista moderno, che però compendia le epoche passate,  il simbolo non è strumento di verità. La sua verità la raggiunge nell’atto stesso della creazione, nell’essenzialità geometrica delle forme, scevre di ogni naturalismo. Le linee essenziali e fluide dei corpi disancorati dall’immediatezza della natura  si proiettano al limite estremo del tempo e dello spazio. L’inerzia-sonno del corpo che nelle sculture viene rappresentato eretto verso l’alto,  trova il suo  riscatto nella forma pura, nei grandi volumi che insistono nello spazio. Tutto è immanenza, energia trattenuta. Idoli, simulacri umani, autoreferenziali, immobili, perchè privi degli arti, ma anche del pensiero e dello sguardo, perché privi di testa o con le palpebre abbassate. I disegni, realizzati con marcati tratti essenziali, non sono preparatori alle sculture, ma altre autonome forme espressive. In questi Giuseppe Cuccio dà piena voce al groviglio delle pulsioni che agitano l’uomo. Sono tronchi umani immobilizzati  nello spasmo della tensione dei muscoli, evidenziato dal copioso tratto di colore nero. Giudicati nella loro estrema, essenziale, cieca fisicità. Mentre le vigorose e rosse teste di cavallo esprimono l’impetuosità del desiderio di vita istintiva e libera da freni. L’antico, che pur si sente, è icona ambigua : autorevolezza dell’arte del passato con i suoi potenti volumi squadrati e libera creatività dell’artista che esprime la tormentata coscienza dell’esistenza moderna, collocandosi al di là di un tempo e di un luogo precisi, in un’atmosfera perenne. Ma la sintesi è precaria, vacilla dopo l’ultima definizione dell’opera per rinnovarsi nell’ intuizione della successiva.( dal catalogo 2015)

*La mostra dal 9-12-2015 al 18-12-2015 a Palazzo Ziino è stata curata da Gabriella Maggio e Aldo Gerbino

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