STATION TO STATION ( ultima parte)
(Lucilla Lo Verso)
La morsa si fece risentire. Era come se una grande mano, violenta e aggressiva, le fosse entrata con prepotenza nella cassa toracica per strapparle il cuore dal petto. Il dolore che provava era oltre ogni immaginazione. Non riusciva a credere che tutta la pura felicità che aveva provato in quei mesi fosse soltanto frutto della sua mente malata. Non riusciva a credere a una cosa del genere, non poteva. Lui era soltanto uno dei suoi mostri. Il più bello di tutti, il più letale. L’aveva aspettata, come un gatto che fa un agguato a un innocuo pettirosso. Se l’era lavorata dall’interno, illudendola di una felicità che non aveva mai vissuto. Le lacrime scesero silenziose sul suo viso, punteggiando di macchie scure il vecchio giornale. Riguardò la foto. Il sorriso era aperto sul viso del ragazzo, spontaneo. I capelli erano ricci e tenuti su per qualche strana fortuna. La foto era in bianco e nero, ma era comunque evidente che non avesse i capelli neri come lei ricordava. Probabilmente erano di un biondo scuro. Il nero si addiceva di più a un mostro della notte, per questo la sua mente lo aveva creato così. Lesse il nome scritto accanto alla foto, e sorrise. Non aveva mai saputo il nome del ragazzo che amava, e solo in quel momento si rese conto di quanto ciò fosse assurdo. Ma non poté fare a meno di sorridere tra le lacrime, in quanto lei non avrebbe saputo scegliere nome più perfetto per il miglior capolavoro della sua mente.
Tornò alla stazione, di fronte al binario numero 7, e si sedette sulla loro panchina. Rabbrividì cercando di ricordare la sensazione delle mani di lui sulla pelle, delle sue labbra sulle proprie. Ma l’unica cosa che la sua mente le restituì fu il vuoto, freddo e spietato. Notò un luccichio per terra, sotto la panchina. Si chinò per raccoglierlo e tirò su il piccolo oggetto, legato a un cordino argentato. Era una piastrina d’argento, leggermente arrugginita e logorata del tempo. Su un lato c’erano scritte delle lettere. “Julia.” Quella era la sua piastrina, la piastrina che aveva regalato a lui tempo prima. Era rimasta lì per mesi, in balia di qualunque cosa e di chiunque, mentre lei viveva il suo sogno ad occhi aperti. Passò la notte su quella panchina, dopo tanto tempo, a osservare quella piastrina e a guardare i treni passare. Decise di comprare anche lei delle sigarette, come faceva lui, e fumarne una dietro l’altra. Forse per cercare una sorta di conforto, o forse per cercare in se stessa qualche ricordo collegato a lui e alle sensazioni vissute. Al primo tiro si soffocò con il fumo, iniziando a tossire alla ricerca d’aria e cercando di liberarsi da quella fastidiosa sensazione nei polmoni. Quel pacco di sigarette rimase quasi intatto accanto a lei.Il sole iniziò a fare capolino dalla campagna inglese, all’interno della quale quella stazione era immersa. Julia guardò il suo telefono, con migliaia di messaggi non letti e centinaia di chiamate perse. I primi risalivano al settembre del 2011. Gli ultimi arrivati, di quella notte, erano solo di sua madre. Decise di aprire almeno quelli.
‘Amore, non ho la più pallida idea di dove tu sia… Mi manchi, sai?’
‘Tesoro, l’altro ieri eri in casa ma non mi hai voluto aprire, spero che tu stia bene’
‘Che diavolo di fine hai fatto?!?! Siamo tutti disperati per te e per i tuoi fottutissimi squilibri mentali, e tu nemmeno ti degni di darci un segno di vita!! Sei solo una stupida ingrata!!’
‘Scusami per lo sfogo July, non avrei dovuto. Domani verrà il dottor Harvey da te, per parlare. Ti ha sempre fatto simpatia’.
Smise di leggere, spense il telefono. Lo lanciò oltre i binari senza pensarci troppo. Uno stormo di piccoli uccellini si sollevò infastidito da quell’interruzione improvvisa. Julia notò per la prima volta un albero di pesco poco lontano, e non poté fare a meno di pensare che fosse bellissimo. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dal suono delle ruote del treno che stridevano sulle rotaie. L’indomani i quotidiani locali furono finalmente allietati da una notizia differente dalle solite ‘il trattore del vecchio Bill donato a un museo’ o ‘le galline della signora Martagon fanno le uova cubiche’. Il titolo di copertina di quel giorno era ‘ragazza suicida perde la vita sui binari di un treno’. Julia aveva deciso, con l’alba del nuovo giorno, di porre fine a ogni sua sofferenza. La sua era stata una scelta ponderata e meditata, ed era giunta a una conclusione: togliendosi la vita avrebbe ricavato solo aspetti positivi. I suoi mostri avrebbero smesso di disturbarla, finalmente avrebbe dormito serena, ma, soprattutto, avrebbe smesso di tormentare il suo cuore che era stato preso in giro nel modo più ridicolo possibile. Inoltre, nonostante tutto, si sentiva proprio come qualche settimana prima. Legata a lui, da una corda dura e spessa. Ovunque lui sarebbe andato, lei sarebbe stata con lui. Quindi decise morire, di lasciar uscire la vita dal proprio corpo. Stava sorgendo il sole, e i primi uccellini iniziarono a cinguettare placidamente. Julia era seduta su una delle rotaie del treno, accarezzando la piccola piastrina nuovamente lucida. All’arrivo del treno si alzò in piedi. Si sistemò i capelli, spazzolò il fondo della gonna nera e si piazzò proprio al centro tra le due rotaie. Aveva una mano stretta al cuore. Voleva assaporare fino all’ultimo quel suono, quel dolce battito simbolo di vita. Il suo ultimo pensiero andò al suo mostro preferito, andò a Michael. La Gioconda della sua mente. Il treno la prese in pieno, morte sul colpo. Fu trovata senza vita tra i binari, con il corpo martoriato per il colpo subito. Nella mano la collana ancora stretta, questa volta leggermente macchiata di sangue. Morì ingenuamente, così come aveva vissuto. Dei petali di fiori di pesco, con il loro caratteristico colore, circondavano l’albero. Molti di loro caddero sul corpo senza vita di Julia, ma ormai lei non avrebbe più potuto goderne la bellezza. Era una giornata stupenda, con gli alberi in fiore e il sole che filtrava delicato tra le foglie.
Era il 17 luglio 2014, ed il treno delle 06:05 era appena passato.