ANIMALI FANTASTICI: La CHIMERA
( Carla Amirante)
Era il mostro d’origine divina, «lion la testa, il petto di capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco: e nondimeno col favore degli dei, l’eroe la spense». Così la chimera viene descritta nell’Iliade di Omero (VI canto, vv.180-184, trad. di V.Monti) quando Glauco racconta del suo antenato, Bellerofonte, il quale, per volere di Petro, re di Argo, aveva dovuto affrontare il mostro. Virgilio, nel VI libro dell’Eneide ai vv. 423-424, invece la descrive così: «La Chimera di tre, che con tre bocche il foco avventa»; mentre Ovidio, nelle sue Metamorfosi (IX, 647), la paragona ad un monte dalle medesime caratteristiche. Dalle descrizioni dei tre illustri ed antichi poeti, il ritratto della Chimera, che ne viene fuori, è quello di un animale fantastico e mostruoso, formato da tre parti e che sputava fuoco; essa non poteva essere diversa da quello che era perché mostruosi erano anche i suoi genitori ed i suoi fratelli: Tifone o Titone, il padre, figlio di Gea ed Urano, aveva cento teste che sputavano fiamme, la madre Echidna era una donna bellissima ma il suo corpo terminava con la coda di serpente al posto delle gambe, e suoi fratelli erano altri mostri, l’Idra di Lerna, il cane Cerbero, Otro, la Sfinge ed il leone Nemeo.
Chimera, secondo la tradizione greca, era stata allevata da Amissodore, re della Tracia, ed in questa regione, oggi a sud della Turchia, recava continui danni e devastazioni, uccidendo col suo alito infuocato chiunque le si avvicinasse; per questo il re della Licia, Iobate, ordinò all’eroe greco Bellerofonte di ucciderla. Come già Perseo aveva giocato d’astuzia per sconfiggere Medusa, così anche Bellerofonte si dovette ingegnare per uccidere Chimera, perché per entrambi i mostri non vi era un’arma in grado di ucciderle. Allora Bellerofonte, con le briglie d’oro donategli da Atena, riuscì a salire sul cavallo alato Pegaso, volò sopra Chimera, la colpì con una lancia dalla punta di piombo che al calore del suo alito si fuse e uccise il mostro. Già dall’epoca antica Chimera era considerata una incarnazione di forze distruttrici, come i vulcani e le tempeste, trasmesse a lei dal padre Tifone, un gigante altissimo dalle cento teste con cento bocche da cui uscivano fiamme e fuoco devastatori e imprigionato da Zeus sotto il vulcano Etna. Chimera, dal greco χiµaiρa-capra, differiva dai suoi consanguinei per l’aspetto di capra che simboleggiava le due stagioni di passaggio dell’anno, la primavera e l’autunno, per la testa di leone che rappresentava il calore e la forza dell’estate, per la coda di serpente, simbolo di terra e d’oscurità dell’inverno. Ma il suo mito affonda in un periodo più antico di quello della civiltà greca, perché essa era già presente pressi i Sumeri come la voce del tuono, sacra alla dea Inanna, poi da questo popolo poi si diffuse presso un altro ancora, gli Etruschi. Proprio nella campagna intorno alla città di Arezzo, dominata in antico dagli Etruschi, fu ritrovata nel 1553 una bellissima scultura del V-VI sec. a.C. che rappresenta la chimera classica con la testa di leone, il corpo di capra e la coda di serpente.La sua personalità ha continuato ad interessare anche autori più moderni come Edmund Spencer che la cita nella Regina delle Fate, 6.1.8, opera di impianto cavalleresco scritta tra il 1590 ed il 1609, o come John Milton nel suo Paradiso perduto, pubblicato nel 1667 e nel 1674, nel quale colloca la chimera all’inferno. Con il passare del tempo la Chimera ha cambiato significato ed aspetto tanto da venire identificata in concetti ed idee profondamente diverse dalla sua immagine primitiva, nel Medioevo personificando la prostituzione o venendo usata in araldica, nel secolo scorso per il poeta Dino Campana addirittura una figura femminile completamente rivalutata. Per meglio comprendere l’evoluzione sia fisica che spirituale del mostro si può incominciare dalla descrizione della chimera di Arezzo del V-VI sec. a.C. per arrivare infine ai giorni nostri. L’antica statua etrusca è una bellissima opera che raffigura il mostro ferito, che si ritrae a lato e volge la testa in maniera molto drammatica: per la sofferenza ha la bocca spalancata e la criniera irta, la testa di capra è reclinata per le mortali ferite ricevute, mentre evidenti sono le costole del torace, così pure le vene sul ventre e nelle gambe. Sembra che la scultura fosse una offerta al dio Tin, supremo dio etrusco del giorno, perché sulla branca anteriore destra vi è la scritta TINSCVIL o TINS’VIL, che significa “donata al dio Tin”. La statua, alta 65 cm., fu restaurata da Benvenuto Cellini ed ora si trova nel Museo Archeologico di Firenze . Nell’araldica medioevale già si può vedere una prima metamorfosi del mostro che viene a perdere sia il corpo di pecora che la coda di serpente, mentre il viso diviene quello di una donna con una folta capigliatura leonina e che del leone conserva la caratteristica forma del corpo. Altri autori ne fanno una figura ancora più complicata di quella primitiva, in quanto Chimera acquisisce il volto di donna, il corpo di capra, gli artigli di aquila, le zampe del leone e la coda del serpente con tutti i significati relativi agli animali citati. Con il poeta Dino Campana si ha l’ultimo cambiamento in quanto egli dedicò proprio a lei una bella poesia intitolata Chimera. L’antica bestia non è più quel mostro spaventoso che portava devastazioni e morte, ma una figura ambivalente: essa può essere donna oppure poesia ed al tempo stesso la medesima persona, perché le due figure si sovrappongono, quasi si identificano, e possiedono una matrice comune che è il mistero che le avvolge. In epoca moderna la primitiva immagine di Chimera è completamente stravolta perché da bestia diviene persona umana femminile affascinante e misteriosa che sta ad indicare il desiderio impossibile da realizzarsi, il sogno vano o l’utopia. In campo psicanalitico invece esprime la perversione violenta, negativa e molto complessa perché essa nasce da tre animali diversi con caratteristiche proprie e differenti, dalla capra capricciosa e lussuriosa, dal leone con i suoi artigli violento e aggressivo, dal serpente strisciante, subdolo e molto pericoloso per il suo veleno.