REQUIEM DI VERDI
(Salvatore Aiello)
Roberto Abbado
Al Teatro Massimo appuntamento finale della Stagione Concertistica, prima della sosta estiva, con l’attesa Messa da Requiem. “Tutti si accordano nel dire che ebbe in sorte il divino dono del genio. E’una perla di onest’uomo, capisce e sente ogni delicato ed elevato sentimento, eppure questo brigante si permette d’essere non dirò ateo ma certo poco credente e ciò con una ostinazione e una calma da bastonarlo. Io mi smanio a parlargli delle meraviglie del cielo, della terra,del mare. Fiato perduto. Mi ride in faccia e mi gela col dirmi: Siete matti e lo dice in buona fede”. Così si confidava con Cesare Vigna Giuseppina Strepponi il 9 maggio 1872. E questo a premessa dello stato d’animo che la morte di Alessandro Manzoni suscitò in Verdi. In verità la morte di Rossini, “Un grande nome è scomparso dal mondo” nel nov. 1868 lo aveva visto mobilitato per una Messa col concorso di tutti i giovani operisti italiani ma l’impresa naufragò tra tante difficoltà e il suo Libera me Domine giacque riposto nel cassetto. Il volersi cimentare in un genere del tutto nuovo, anche se con qualche precedente di breve respiro, impegnò Verdi questa volta con tutta l’energia e la passione nota per onorare, deciso ed incalzante, la memoria dello scrittore santo. Febbrile il lavoro e al solito la ricerca spasmodica degli interpreti adeguati per canto, sapienza della parola scenica e calore interpretativo al fine di trasmettere tutta la drammatica richiesta di squarciare il mistero delle tenebre per cogliere liricamente il respiro della vita e dell’aldilà.
La scelta non poteva che cadere sulle più prestigiose cantatrici: Teresa Stolz e Maria Waldmann per la quale il compositore scrisse: “Senza di essa sarei allora costretto di non scrivere per contralto (non ho fede negli altri) e sarebbe brutta cosa non avere al completo il Quartetto”Per l’illustre bussetano come sempre contavano le voci, i grandi interpreti del suo profondo e accorato sentire. Questo richiamo ci invita ancora una volta a capire che cantare Verdi significa possedere voci squisitamente verdiane per timbro, volume, accento e soprattutto, in questo caso, spendersi per un’accorata supplica alle mute domande di tutta la sua travagliata esistenza. Nonostante le tante perplessità dei critici, sin dall’apparire nella milanese Chiesa di San Marco, famosa la condanna di Bulow come ridicolo il ravvedimento postumo, il Requiem ha destato perentori interrogativi e da parte degli esecutori obbligatori percorsi interpretativi con coerenza tra una visione improntata alla sobrietà percorrendo solchi di ricercata spiritualità, così in fondo chiedeva il suo autore e quella magniloquente tesa, drammatica degna di Tommaso da Celano e della visione giustizialista del Dio dell’Antico Testamento caro sino al Michelangelo della Sistina. A Palermo il deus ex machina era Roberto Abbado il quale ci sorprendeva per il suo approccio volutamente a senso unico sin dall’inizio. Il suo viaggio interpretativo poggiava su schemi aleatori di catastrofe e angosciosa drammaticità per la scelta delle esasperate sonorità, marcando tra l’altro l’apporto delle percussioni ed enfatizzando il tutto rendendo meno articolati fraseggi, mordenti, squarci teneramente lirici che segnano i momenti interlocutori e poetici del laico dubbioso Verdi. Una tale conduzione scontatamente obbligava coro e solisti a spingere per rispondere adeguatamente alla richiesta dell’orchestra col pericolo, in qualche momento, di naufragare. Maria Agresta dalla voce lirica, ben messa per mezze voci, filati, archi di fiato e di impasto prezioso, ma non verdiano nel senso pieno, si è trovata a dover gareggiare ad armi impari soprattutto in quella pagina sconvolgente quale il Libera me.
Maria Agresta
Più a suo agio nel Recordare e nel Lacrymosa anche col concorso di Ekaterina Semenchuk che ha rivelato un vocalità corposa ed interessante nel complesso sorvegliata se si escludono alcune cadute di linea vocale con un registro grave non sempre ben controllato.
Ekaterina Semenchuk
Riccardo Zanellato, subentrato a Pertusi, si faceva in genere seguire per professionalità sin dal Confutatis, avremmo desiderato una cavata e un accento più ieratici; una scoperta interessante quella di Giorgio Berrugi in possesso di un timbro e squillo simpatici, capace di fraseggiare e pronunciare con assoluta fedeltà il testo esaltandone gli intimi significati.
Riccardo Zanellato
Compatto il Coro ma questa volta non particolarmente convincente per le infuocate e debordanti sonorità. Calorosissimo, nonostante tutto, il consenso del pubblico.
Giorgio Berrugi