UN BALLO IN MASCHERA

( Salvatore Aiello)

 

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Vivissima l’attesa per i melomani e non, per il ritorno sulle scene di Un ballo in maschera che ha concluso la prima parte della Stagione di opere e balletti del Teatro Massimo. Momento esaltante della creatività verdiana, ai piedi della trilogia romantica e dopo gli anni di galera, ebbe una genesi assai faticosa: da Gustavo III a Ermanno di Pomerania, Una vendetta in domino, Adelia degli Adimari, Il Conte di Gothemberg, per giungere al titolo definitivo nel 1859 col quale si presentò sul palcoscenico dell’Apollo di Roma dopo l’obbligata rinuncia al San Carlo da parte del compositore per la drastica posizione della censura napoletana. Fu accolta più favorevolmente dal pubblico che dalla critica, per la stesura del libretto; D’Annunzio la bollò “Il più melodrammatico dei melodrammi”; rivalutata nel ‘900, tra gli altri, da Massimo Mila che la definì “Il Tristano ed Isotta di Verdi, il più puro esclusivo poema d’amore”, l’opera si affermò a pieno titolo, ancora una volta, in tutte le ribalte internazionali. Un ballo in maschera che confina la vicenda storica, accaduta nel 1792 in Svezia con la morte dell’illuminato sovrano Gustavo III, si incentra sulla passione onnipotente dei due amanti protagonisti Amelia e Riccardo assurti a simboli, senza necessità di precisa individuazione, poiché “hanno tutto il colore ed il disordine che ci vuole nelle passioni”.

L’edizione palermitana si giovava del recupero dell’allestimento del Regio di Parma dell’edizione ’88 -’89 di Pierluigi Samaritani che a suo tempo dichiarò di avere preso direttamente dalla musica l’atmosfera mediterranea dove scene e costumi si illuminavano di un’invenzione di un ‘600 fantastico senza connotazioni e collocazioni precise; ad apertura del sipario esplodeva la gioia degli spettatori che ritrovavano finalmente quello che è stato il glorioso “teatro tradizionale” più rispettoso e più consono all’ispirazione della musica e a ciò che essa racconta. L’ambientazione del primo atto ci trasportava idealmente “nella reggia di Fontainebleau o di Caserta”; imponente lo scalone del palazzo comitale illuminato dalle sapienti luci di Andrea Borelli che creavano adeguati contrasti e tinte brillanti mettendo in risalto gli eleganti, sontuosi, colorati costumi ridisegnati e recuperati, così come le scene, dalla presenza valida di Massimo Gasperon autore anche della regia in genere senza particolari guizzi con una trovata crudele: la presenza del figliolo di Amelia testimone innocente del regicidio. Il secondo atto si consumava nella landa desolata e nell’antro spettrale di Ulrica; si sostanziava inizialmente del lungo tormentato duetto d’amore allargato poi al terzetto che ci partecipava l’infelicità di una passione prima negata, poi confessata ma non consumata, maturata dalla dolorosa coscienza degli amanti in balia a sentimenti travalicanti la volontà e le regole cui seguiva l’incontro del Conte, sotto mentite spoglie di un pescatore, con l’indovina. Il terzo atto era mirabilmente ricreato dalla imponente e sfavillante galleria da ballo dove si perpetrava il delitto sulle note doloranti del todesmenuett a suggellare amaramente che la colpa sta nel vivere.  Se lo spettacolo costituiva gioia per gli occhi meno lo è stato per ciò che abbiamo sentito poiché teniamo sempre presente che soprattutto in teatro conta il conflitto delle passioni che trova espressione e comunicazione attraverso la parola scenica chiedendo categoricamente ai cantanti di avere, tra le corde vocali, l’anima. A Palermo si è stranamente ripetuto, sul piano del canto, ciò che accadde alla prima allorché Verdi scrisse che bene erano andati gli uomini, il tenore Fraschini e il baritono Giraldoni, molto meno le donne. Roberto Aronica, nonostante la voce non si avvalesse di un pregiato timbro, affrontava il ruolo del giovane e generoso Riccardo in qualche modo imponendosi per armonici, colori e acuti ben piazzati, anche se al terzo atto giungeva un po’ affaticato; a lui, allievo del sommo Bergonzi, mancava quella alata fantasia e leggerezza di emissione che avrebbero consentito risvolti sentimentali più accesi e articolati. Giovanni Meoni metteva a disposizione di Renato una voce squisitamente baritonale, del tutto credibile sia nei momenti amicali che in quelli vendicativi, trovando i giusti accenti con una vocalità però a tratti ai bordi che toglieva smalto alla zona acuta disegnando comunque sempre la fisionomia nobile ed umana del ruolo.

 

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Oksana Dyka nei panni di Amelia, imparentata a Violetta e ad Elisabetta del Don Carlo, avrebbe dovuto confidarci i ribelli moti del suo cuore e che l’amore è fonte di vita e di dolore poiché impossibile il miraggio di realizzarlo, dimidiata tra doveri coniugali e i palpiti per l’uomo amato. Pur dotata di una organizzazione vocale promettente ci ha offerto un canto frutto di un timbro spesso stridulo e di un fraseggio inerte e incomprensibile dando la sensazione di non possedere il messaggio delle parole che non trovavano, adeguatamente, supporto scenico.Imbarazzante poi la prestazione di Tichina Vaughn, una Ulrica dalla voce possente e ce l’ha fatta sentire tutta senza il dovuto dominio tecnico né coerente linea di canto; lei sorella di Azucena, si è abbandonata ad incontrollate messe di voce che poco avevano a che vedere con la profetica indovina. Oscar, imparentato col Cherubino mozartiano, instrumentum fati, era affidato a Zuzana Markova inadatta fisicamente al ruolo en travesti, nonostante scenicamente spavalda risultava carente per un fraseggio poco incisivo nell’espressione e nella dizione. A capo dell’orchestra Paolo Arrivabeni, impegnato a dialogare col palcoscenico, coglieva e restituiva in qualche modo quel giusto equilibrio tra tragedia e commedia, pur con toni in genere sommessi e tempi spesso lenti regalandoci a tratti espansioni melodiche e nervose lacerazioni orchestrali, linfa viva della partitura che ancora oggi appare del tutto coinvolgente. Di tutto rispetto la presenza professionale di Paolo Battaglia Samuel, di Manrico Signorini Tom e di Nicolò Ceriani Silvano. Cosimo Vassallo era Un giudice e Un servo di Amelia. Bene il coro istruito da Piero Monti e la coreografia di Amedeo Amodio. Pubblico diviso con applausi di rito.

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