Orphée et Eurydice

(Salvatore Aiello)

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Secondo spettacolo della Stagione al Massimo con Orphée et Eurydice di Christoph Willibald Gluck, libretto di Pierre-Louis Moline (versione di Hector Berlioz) rilettura affidata alla regia del coreografo belga Fréderic Flamand. L’opera, figlia di tanti padri, dalla storia assai complessa e tormentata via via nel tempo, ha perduto la sua autentica dimensione storica e la cifra assoluta di innovativo capolavoro inverante la rivoluzione antibarocca perseguita da Gluck e de’Calzabigi nella Vienna di Maria Teresa. Notevole infatti fu l’impegno di dare un nuovo assetto alla tradizione melodrammatica conferendole quella controllata funzione culturale giunta fino a Wagner che vi attinse per il suo Wort-Ton-Drama. La storia del melodramma affonda le sue radici nell’Euridice di Peri e Rinuccini i quali si adoperarono a ripristinare il recitar cantando scegliendo proprio il mito di Orfeo,il cantore che riesce a civilizzare, ad ammansire le belve, a ricomporre l’armonia nella natura e nella vita.

L’operazione 1859 di Berlioz risultò un problematico papocchio nel volere ricorrere ad una contaminatio tra l’edizione di Vienna (1762) e quella parigina (1764) per la conquista di un nuovo pubblico .Flamand per di più ha proposto il testo immergendolo nel sentire della società contemporanea, in una fusione di musica, voce, gesto e scena mettendo del tutto in primo piano la coreografia pensata per il balletto Nazionale di Marsiglia e affidando le immagini, le scene e gli anonimi costumi a Hans Op de Beeck che abbandonandosi ad una sbrigliata fantasia ambientava la tragica vicenda di amore e morte di Orphée ed Eurydice in un mondo atemporale. Sulla ribalta si stagliava una metropoli fittizia, “la città trionfante,la città in rovina,la città infernale,la città malinconica dominata dalla virtualizzazione”. A tal uopo lo scenografo costruiva un paesaggio di pannelli mobili creando fondali che di volta in volta si componevano e scomponevano in sintonia con il movimento dei corpi dei coreuti. Abbiamo inoltre assistito, perplessi, alla formazione di grattacieli di plastica, ambienti di zucchero, getti d’acqua (a significare, forse le lacrime degli uomini?); in tanto cerebralismo e arcana simbologia siamo stati spesso costretti a chiederci “cui prodest tutto questo?” poiché dell’opera di Gluck se ne era persa la traccia. Il canto passava in secondo piano e l’ascoltatore faticosamente riusciva a cogliere nello stesso momento l’interpretazione delle scene e seguire il canto, la musica, il balletto e le didascalie del testo. Non vorremmo assolutamente dare la sensazione di non accettare o di non comprendere l’ansia di attualizzazione che permea questo nostro tempo inchiodato a poche fisse idee e spesso non chiare ma dire una parola nuova di altissimo respiro, allorché si affronta la rilettura di grandi capolavori, è un’impresa assai difficile e noi siamo responsabili di quanto consegniamo alle nuove generazioni che purtroppo, per i frequenti ricorsi a spettacoli così disorientanti non riescono assolutamente a comprendere le ragioni per cui ancora il melodramma dovrebbe sopravvivere.L’Opera è un genere del tutto a parte, il teatro musicale e tutte le sue deformazioni e modernizzazioni sono altro; non paga né una visione tradizionalistica né tanto meno una visione utopistica, non si può andare avanti senza tenere conto di ciò che il tempo ha ritenuto classico, viceversa tutto diventa avventura sperimentale svuotata di pregno significato e di seguito. L’opera di Gluck-Berlioz Saint-Saens (voluta per imporre la presenza della Viardot) quindi a Palermo, ha assunto nuova e diversa connotazione, riconoscibile a stento ma a pacificare l’anima è subentrata la musica. Giuseppe Grazioli si è prodigato in una direzione attenta e conciliante fra afflati neoclassici e richiami romantici, ricreando con colori opportuni l’atmosfera in tutta la sua raffinata classicità e comunque sempre attento alle ragioni del palcoscenico sul quale si imponeva, con improbabile physique du role, Marianna Pizzolato dotata di una vocalità interessante ed elegante anche se non estesa; sicura e nobile la sua linea di canto, disinvolta nelle agilità, morbida l’emissione, incline piuttosto a dare del personaggio una visione nostalgica e sentimentale, meno felice nei momenti di più densa drammaticità. Mariangela Sicilia offriva di Eurydice una prestazione in genere corretta ma in qualche momento dimentica del ruolo appassionato e dello stile. L’Amour di Aurora Faggioli risultava petulante nel colore e poco articolato il fraseggio. Solido ed in risalto il coro ben guidato da Piero Monti. Apprezzabile per intensità espressiva, scioltezza e padronanza scenica la presenza dei ballerini solisti: Cristian Novopavlovski (Orphée blanc), Andrea Mocciardini (Orphée noir), Valentina Pace (Eurydice), Lucia Ermetto (Amour) narratori e commentatori in primo piano del viaggio dell’umanità affannata a placare gli dei del cielo e degli inferi, ma soprattutto tesi alla ricerca di dare significato alla vita e alla morte in una società odierna quasi deumanizzata. Lo spettacolo ha diviso il pubblico per quanto detto; alla fine applausi mirati soprattutto alle protagoniste palermitane (Pizzolato e Pace) che naturalmente costituiscono, per la loro dedizione e professionalità vanto ed orgoglio per una terra che spesso è ricordata per vicende meno nobili.

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