Orfeo nel mito

(Carmelo Fucarino)

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In occasione del matrimonio, nel Duomo di Firenze, di Maria, figlia di Francesco I de’ Medici con Enrico IV di Francia, il poeta Ottavio Rinuccini, scrisse il libretto di Euridice, che Jacopo Peri, autore anche di una Dafne, musicò e fece rappresentare a Palazzo Pitti il 6 ottobre 1602. Di poco seguì la versione di Giulio Caccini. Fu l’atto di nascita del melodramma o opera lirica. Si trattò di una errata lettura della struttura e degli stilemi della tragedia greca antica, un travisamento in cui incorse quel gruppo di simpatizzanti e di patiti del mondo classico, celebri Ottavio Rinuccini, Giulio Caccini, Jacopo Peri, Vincenzo Galilei, liutista e padre di Galileo. Era la leggendaria Camerata che si riunì forse per la prima volta il 14 gennaio 1573 nel palazzo del conte Giovanni Bardi dal quale prese il nome. Così nacque il melodramma, che nel neologismo composto voleva intendere la forma del dramma espresso nel melos greco che era però altra cosa, un insieme di musica, canto e danza, espressione dell’etica e dell’areté delle corti greche. I dotti rinascimentali lessero i canti corali della tragedia, parodo e stasimi, come melos, e gli intermezzi degli episodi come forme dialogiche di recitativo. Nacque così la struttura mai esistita e nuovissima del recitar cantando.

Dopo più di un secolo e mezzo il 5 ottobre 1762 al Burgtheater di Vienna Christoph Willibald Gluck fece rappresentare, “per contralto castrato”, il suo Orfeo ed Euridice su libretto di Ranieri de’ Calzabigi, accademico, avventuriero e amico di Casanova. Dodici anni dopo la riscrisse per le scene di Parigi in versione francese, Orphée et Eurydice, e il 2 agosto 1774 la presentò in una sala del Palais-Royal. Fu la grande rivoluzione della sua “riforma” musicale con la quale intese restaurare un equilibrio tra musica e parola, dopo la deriva a favore del dramma poetico alla Metastasio. Proprio a qualche ora dalla presentazione della prima di questa edizione al Teatro Massimo, la professoressa Gabriella Maggio, per la IX Stagione di incontri culturali del Centro Internazionale di Studi sul Mito – Delegazione Siciliana, ha tenuto una relazione sul mito di Orfeo. La conferenza ha offerto numerosi spunti di riflessione ed è stata una proficua ed utile premessa per la visione dell’opera. Peccato per la presenza di quei pochi simpatizzanti del Centro. Intanto per l’ampiezza della tradizione che dalla società primitiva si è diffusa fino ai giorni nostri con le ultime elaborazioni poetiche e letterarie novecentesche, la professoressa ha sentito la necessità di fermare la sua analisi al periodo barocco, rimandando ad altra fase L’inconsolabile dei Dialoghi con Leucò. La trattazione, lucida e articolata, è partita della frammentaria documentazione della tradizione greca e dalla presentazione del personaggio, ancora evanescente e scarsamente definito nella sua identità, in quei brevi e semplici relitti che sono sopravvissuti fra le pieghe delle scarne citazioni della tradizione indiretta, l’«Orfeo dal nome celebre» di Ibico di Reggio e gli uccelli che volano sul suo capo e i pesci che guizzano in alto di Simonide di Ceo. Così l’inserimento nel Simposio platonico fra i sofisti fino alla sua apparizione sulla tolda della nave degli Argonauti del tardo epos di Apollonio Rodio. Il momento clou della trattazione è stato però dedicato alla fase della vera elaborazione e costruzione organica del mito con la straordinaria conclusione delle Georgiche.

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Hermes, Euridice, Orfeo. Copia romana del I sec. d.C. dell’originale attico del V sec.a. C.

Misterioso e problematico innesto, perché inserito nel mito di Aristeo e in quel canto dedicato a un momento particolare della vita dei campi, l’apicoltura, alla quale in un complesso di soli quattro libri è dedicato tutto il quarto. Cosa che non avevano fatto né Catone né Varrone nei loro trattati sull’agricoltura. Libro straordinario tanto che il poeta sentì il bisogno di porre ad inizio una nuova dedica a Mecenate e una invocazione più alta ad Apollo. Poi l’excursus sul vecchio di Corico e la nuova ekphrasis inserita nell’epillio di Aristeo, quel canto misterioso di Orfeo. Sostituì l’encomio per Gallo, dopo la condanna e il suicidio? Comunque le ragioni del canto restano misteriose. A me ha sollecitato un’ampia ricerca che attende ancora la pazienza della stampa. E sempre mi dà un profondo turbamento quel grido che risuona nell’aria e nei nostri cuori: «Illa, Quis et me, inquit, miseram et te perdidit, Orpheu, / quis tantus furor?». Semplice flatus in confronto l’elegiaco pianto barocco che risuona sulle scene nella rivisitazione di Calzabigi «Che farò senza Euridice?». Ancor meno nella versione francese, che ha presentato il Teatro Massimo, in cui anche questo lamento nostalgico e patetico si stempera in un insignificante cantato «J’ai perdu mon Eurydice». La lettura e l’esplorazione del mito virgiliano è stato affrontato dalla Maggio nei suoi intricati passaggi ed è proseguita nel suo sviluppo con quel divertimento poetico sui miti che furono le mirabolanti e troppo umane Metamorfosi di Ovidio. La Maggio ha indicato la completa diversità della lettura del mito e le ragioni che hanno spinto il poeta verso questa nuova via. Per riassumere semplicemente la vasta ed articolata indagine, l’analisi ha poi riguardato gli approcci nella tradizione medioevale con Severino Boezio e la sua consolatio, la nuova collocazione del cantore fra i filosofi danteschi nel cenno dell’Inferno (vv. 140-141, e vidi Orfeo, / Tulio e Lino e Seneca) e nell’allegoria del Convivio, o la deformazione cristologica in figura Christi e i successivi inserimenti e interpretazioni rinascimentali di Ficino in chiave cabalistica e neoplatonica attraverso i carmi orfici oppure lo sviluppo nel canto di Poliziano (la Fabula di Orfeo), per giungere alle deformazioni e attualizzazioni dell’età barocca con El divino Orfeo di Calderon de la Barca e con la tradizione epica inglese. Necessaria quindi la promessa, accolta dal Presidente Romagnoli, di proseguire l’indagine in un altro incontro sull’interessante sviluppo e sull’utilizzazione del mito nella letteratura moderna e contemporanea. Naturalmente l’argomento e gli spunti offerti dalla relazione hanno dato la stura ad un dibattito appassionato, a delucidazioni su momenti specifici del mito e a proposte di altri innesti, come le elaborazioni e gli inserimenti del Cristianesimo attraverso il paolismo.

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