Dialetto o lingua
(Carmelo Fucarino)
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Nel collaudato angolo letterario, condotto dalla professoressa Gabriella Maggio e organizzato e gestito dalla Presidente dell’Associazione Volo Maria Di Francesco, ad inaugurare l’anno sociale, si è tenuto il 3 febbraio 2015 al Mondadori Megastore l’”Incontro con l’autore” che ha avuto come protagonista Giuseppe Pappalardo, in occasione della pubblicazione per la casa editrice Nuova Ipsa del testo Scrìviri. Il sottotitolo, a scanso di equivoci e di fraintendimenti, ne riassume in modo chiaro il contenuto: “Una guida al dialetto siciliano”. La professoressa Maggio ha puntualmente esposto gli ambiti della questione e nei suoi intercalati interventi interlocutori ne ha stabilito i termini con le domande ricorrenti. La parte esplicativa è stata giustamente occupata dai chiarimenti e dai distinguo dell’autore, che nella presentazione libraria aveva già esposto le linee guida del suo testo, così come aveva fatto già Giovanna Sciacchitano in questo stesso blog. Cercherò di non ripetere cose già dette.
Ritorna nel dibattito, ormai ristretto fra cultori, la vexata quaestio del dialetto e delle sue implicazioni nella società del linguaggio mass-mediale, quel tristo italiano inventato, e ohimè!, anche semanticamente da imberbi in cerca di visibilità, su tv, rete e carta stampata. La “lingua” siciliana era il pallino del prof. Corrado Mirto, docente di Storia medioevale del nostro Ateneo, scomparso nel giugno scorso e al quale va il nostro commosso ricordo. Proprio sulla questione del dialetto ho avuto con lui un dialogo nella rete Tvm, che con grande testardaggine e azzardo persiste nel trasmettere un intero notiziario in dialetto siciliano. Così ho trattato dei grecismi nel nostro dialetto alla Società siciliana per l’Amicizia fra i popoli di Ninni Casamento che conduce un altro esperimento di studi dialettali. La questione ha avuto di recente una comparsa, fugace come una stella cadente di agosto, con la provocazione del narratore in dialetto personale e del linguista di professione che hanno raccolto le loro contorsioni memoriali e affabulatorie nel libro La lingua batte dove il dente duole (dico Camilleri e De Mauro). Eppure a Palermo l’anima e il centro propulsore del dibattito è stato da sempre Salvatore Di Marco, da quando ci incontrammo giovani ed entusiasti al Circolo culturale Pitrè e lui già da tempo nel Gruppo Alessio Di Giovanni portava avanti quel progetto, diciamo speranza, di un rinnovamento della poesia dialettale siciliana. Ci siamo sfiorati, perché io preferivo la poesia, si dice in lingua, che mi dava la possibilità di una comunicazione più vasta, vasta, certo, quanto può esserlo nel mondo la lingua italiana. Eppure furono per noi anche gli anni di Ignazio Buttitta. Quando quella sera del 17 maggio 1972 venne all’ITI Vittorio Emanuele III e nell’aula Magna piena dei giovani ancora in odore di occupazioni sessantottine e dintorni e recitò le sue poesie, ci fu un boato. Recitò con la sua gestualità sotto quel basco nero, Non sugnu pueta (proprio così), la voce pastosa e le pause, un vero istrione. La raccolta era Io faccio il poeta e nella dedica che conservo gelosamente mi scrisse «A Fucarino ca talia non parra ed havi u cori chinu». Pensare che veniva allora dai suoi recitàl (così diceva) fra i “compagni” di Mosca. In questo imperare di camillerismo e di dialetto empedoclino, sì e no, mi piace rievocare l’esperimento di Buttitta. Anche quello non era dialetto siciliano, né tanto meno dialetto di Bagheria. Allora mi sorse il dubbio che in quell’impasto linguistico e nella resa grafica ci fosse stata la mano del figlio cattedratico di tradizioni popolari. Anche nella dotta traduzione in lingua a fondo pagina. E anche allora la questione toccava la trascrizione dei fonemi e l’adattamento alla scrittura. Il discorso quindi mi conduce alla problematica affrontata con estrema chiarezza da Pappalardo. Si può oggi “scrìviri” in dialetto e come? E quale può essere ancora la funzione, l’uso del dialetto? In linea di principio non accetto che il dialetto sia morto. La mia esperienza accanto ai giovani, il rapporto quotidiano di comunicazione mi fa sentire che si parla abitualmente in dialetto, qui a Palermo, nei nostri paesi, ma anche a Milano e Torino. Mai sentito il barista o il commesso o il verduraio rapportarsi in italiano. Farebbe ridere se mi dicesse, «vuole un bel cavolfiore o un cespo di verdura?». Conosco professori di Liceo classico che tengono lezioni in dialetto. La questione dantesca del siculo e del curiale, era posta in termini di comunicazione letteraria, così la ripresa della “questione della lingua” nel Rinascimento e nel Romanticismo (Manzoni e compagni), fino a Verga e al Capuana ideatore di “poetica”. Si trattava del come scrivere opere d’arte. La lingua, la saussuriana “langue”, altro dalla “parole”, è invece l’organismo che unisce una comunità di parlanti e la mette in condizione di capirsi. Sì, il dialetto di Catania è diverso da quello di Palermo, e quello della Vucciria è diverso da quello di via Libertà. Ma pure il cosiddetto italiano del Palermitano è diverso da quello del Torinese, come il torinese di porta Palazzo è diverso da quello del Lingotto. Così un tempo il raffinato attico ateniese era diverso dal vicino beota che scendeva dalle montagne ed era dileggiato da Aristofane. Così il dialetto romano di Cicerone e il cosiddetto latino dell’Orazio tra Apulia e Campania. Anche Cicerone dubitava della corretta pronunzia e della conoscenza delle quantità fra il popolo del sermo plebeius o cotidianus. Un conto è studiare il cosiddetto greco e per comodità scolastica uniformarlo nella grammatica prescrittiva e normativa dell’attico dell’età di Pericle (così la mia grammatica), tranne poi a spiegare i cosiddetti dialetti, cioè quelle lingue letterarie dette ionico epico, dorico, eolico con i loro sistemi e generi, e catalogare le variazioni come eccezioni. Si badi, stiamo sempre discutendo di ambiti letterari. Altro è comunicare linguisticamente, mi spiego con la “lingua”, che non è trascrizione grafica, ma fonema, perché questo era “glossa”, organo fisico di fonazione, come nella resa moderna. Purtroppo dalla scuola elementare per lingua si intende la sua trascrizione grafica o le soluzioni letterarie e si ignora la sua realtà fonetica. A scuola si insegna la lingua morta, l’italiano musealizzato nei testi letterari. Per precisare anche il Dante studiato è un testo concordato in margine a biblioteche di “Questioni dantesche”, a cominciare dal Petri Aligherii super Dantis ipsius genitoris Comoediam commentarium del 1340 (cf. “Edizione Nazionale dei Commenti danteschi” e la Rivista di studi danteschi). D’altronde vai a spiegare che non si comunica con il testo di Verga o Ungaretti, per intendere i più vicini, ma con fonemi creati per una sola volta e già morti appena pronunziati. È anche difficile che una maestra di scuola elementare conosca la lingua italiana, dico la lingua come comunicazione fonetica, sia a Palermo che a Milano e Torino. Perciò Pappalardo insiste nel precisare che il suo lavoro è semplicemente indicativo e delucidativo, non vuole e non può essere una grammatica di una lingua in fieri, che si evolve con l’universale processo delle aree concentriche e che adotta o meglio crea i suoi nuovi semantemi. Ci sono tante grammatiche e vocabolari di lingua siciliana, ma essi servono a descrivere il momento della lingua morta, quella letteraria, sia quella dell’abate medico Meli o quella del cinematografaro Camilleri, sono delle schedature per una linguistica storica. Perciò nelle Università le cattedre di dialettologia (anche lo slang americano e le diversità araba o cinese). Come per tutte le lingue in ogni angolo del mondo. Se si pensa che si alzano lamenti e reti protettive per la paventata scomparsa di una lingua parlata da cento persone o meno nella foresta amazonica o in quella australiana.
Ringrazio il prof. Fucarino della nota puntuale e approfondita in cui, fra l’altro, egli insiste nel far capire come il dialetto sia una lingua viva da mantenere in vita!