L’Italia dei delitti e delle pene
(Carmelo Fucarino)
Palazzo Tommaso Natale di Monterosato
Sede dell’Assessorato Comunale alle Attività Sociali
Rimane soltanto una lapide nel suo palazzo in via Garibaldi a Palermo. E un sobborgo, Tommaso Natale-Cardillo, detto burocraticamente quarantottesima unità di primo livello, nella VII Circoscrizione di Palermo. La parte a lui intestata si deve alla sua villa, ancora esistente, intorno al cui baglio si sviluppò l’insediamento.Pochi sanno però che fu un eccezionale giurista, che anticipò principi rivoluzionari, ancora oggi ignorati dagli Stati leader ed egemoni del mondo. Nel 1759 scrisse le Riflessioni politiche intorno all’efficacia e necessità delle pene dalle leggi minacciate, dirette da Tommaso Natale, marchese di Monte Rosato al giureconsulto D. Gaetano Sarri. Si trattava di cinque anni prima che Cesare Beccaria pubblicasse nel 1764 il suo trattatello Dei delitti e delle pene.Questo è l’incipit (da una raccolta di Opuscoli di autori siciliani, tomo terzodecimo di Gioachino Castello, Palermo 1772, pp. 169-269): «Voi mi domandate, quale sia la cagione, che non ostante la troppa severità delle pene, che le leggi minacciano, e la frequente ed esatta esecuzione di esse, si commettano pur non di meno con tanta frequenza delitti così enormi, e così immani?». In nota (a) «Io scrissi questa mia lettera, mentre che mi trovava l’anno 1759, in Napoli, e molto prima per conseguenza, che si fusse pubblicato il saggio sistema del Signor Beccaria» (di grande importanza le sue osservazioni sul testo di Beccaria).Così si rispondeva alla domanda retorica: «Io penso dunque, che non è né la troppa severità delle pene, né il frequente uso di esse, che le renda efficaci; bensì il saperle adattare, e dispensare quantunque meno severe fussero, e meno spesse.
Anzi sostengo, che il supplizio della Morte non è forse il mezzo più adatto, per prevenire, ed estirpare i delitti, ed imprimere negli animi dei sudditi quella necessaria idea di timore, e di spavento, perché si astenessero di commetterli: come che si giudichi e sia effettivamente il maggior male, che si possa minacciarsegli».E poi «io non trovo altra mira, cui possano essere indirizzate le pene, che o l’emendazione del delinquente, o l’esempio altrui, perché temendo la stessa pena non si caschi negli stessi delitti». Così pure riteneva che si potessero accettare la soddisfazione e l’utile dell’offeso, «purchè la soddisfazione non debba consistere nella compiacenza del dolore del delinquente, ciò, che sarebbe inumano, e da sfuggirsi», perché l’oggetto delle pene «è quello della pubblica pace, e sicurezza» (p. 196-97).Riguardo alla pena di morte, questa non produce gli effetti sperati nell’animo umano, cioè apprensione e timore: la principale ragione «viene effettivamente dall’intrinseca natura della pena capitale, nella cui estremità e violenza, si racchiude certamente la sua debolezza» (p. 223): I. «perché gli Uomini non hanno un’idea chiara intuitiva, ed evidente del morire»; II. Sono troppo abituati alla morte e al veder morire; III. Il supplizio della morte è troppo momentaneo e diventa uno spettacolo passeggero di sadici che ne provano piacere. Lo ammette però in casi gravi… «nell’infame delitto della ribellione, è ella utilissima» (pp. 224-227). A proposito della tortura scriveva inoltre: «I. lo sforzare chiunque a confessarsi reo di sua propria bocca è contro tutte le leggi della umanità, e della natura: II. Una confessione per tale mezzo estorta si dee presumer nulla, perché forzata dalla violenza dei tormenti». E può avvenire che chi resiste «si vede divenire innocente, e reo chi in tutti i conti è innocente; lo che evidentemente dimostra, che il tormento delle Tortura non sia di sua natura necessario» (pp. 230-31) La giustizia, la probità, l’equità si possono attivare «per via di risvegliare, e coltivare in noi quei veri principi di virtù, che la natura ha seminati dentro le anime nostre, di rettificare, e bene indirizzare le nostre inclinazioni» (p. 244), attraverso l’istruzione e l’educazione. A riprova del novero dell’Italia tra i paesi civili, sede del Vaticano e di radici ebraiche e cattoliche, il nostro Stato ha sottoscritto solo il 25 ottobre 2012 la “Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti”, entrata in vigore nel 1987. Ma né oggi né dopodomani pensa di ratificarla, come è già avvenuto in 47 Stati europei. Cioè in Italia non esiste il reato di tortura per mancanza di ratifica di un dispositivo europeo. Bel semestre europeo quello italiano! E bel popolo! La celebrazione dei 250 anni dalla pubblicazione del libretto di Beccaria sarà lo spocchioso vanto di modernità riguardo al diritto penale da parte di tanti buontemponi dalla coscienza leggera. Eppure l’anniversario era l’occasione buona per iscriverci fra i paesi civili e realmente cristiani. Se è vero, come affermano in altri casi, che solo Dio può dare la vita e riprendersela. Non fa meraviglia se il libretto di Beccaria fu pubblicato anonimo, per evitare rappresaglie, nonostante fosse marchese, e fu messo all’indice dei libri proibiti nel 1766. Per la Chiesa di allora il peccato era anche reato.