Švanda dudÁk

(Salvatore Aiello)

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E’ andata in scena al Massimo di Palermo, per la prima volta nella lingua originale (in italiano nel ’58 alla RAI con la Gencer, Bertocci, Colombo e direttore Rescigno), Švanda dudák del compositore ceco-americano Jaromir Weinberger, che si giovava dell’allestimento del 2012 della Semperoper di Dresda. L’opera che nel 1927 a Praga ha reso famoso il suo autore, purtroppo non ha resistito al tempo pur mostrando di possedere una accattivante colonna sonora di suggestiva espressività ed espansione che per quel tempo costituiva una novità ma soprattutto vanto per l’affermazione della scuola musicale della Cecoslovacchia.

 

Unica affermazione quindi, frutto della sua prolifica versatilità e della capacità particolare di amalgamare in maniera sincretica vari materiali tratti dal folklore ma soprattutto dal panorama operistico occidentale siglato dal genio di Puccini.Di Švanda dudák in genere nelle sale concertistiche si usava e si usa eseguire i brani orchestrali che rivelano l’ispirazione di un compositore assai dotato, non a caso fu allievo anche di Max Reger da cui apprese l’abile tecnica del contrappunto. L’opera potrebbe avere come sottotitolo “Una valigia volante per l’inferno” non a caso ad apertura del sipario la valigia faceva da protagonista della scena, simbolo di avventura, di sogni accarezzati, di alacre fantasia unico mezzo di trasporto agile e veloce. Nella sua messinscena, stile volksoper, Axel Kohler ci inoltrava in uno spettacolo pieno di vitalismo, di idee assai comiche in un gioco di scenografie e costumi cangianti e pertinenti. Tutto aveva inizio con l’ouverture e con una pantomima dai contorni slapstick, Arne Walther ambientava la vicenda avviandola in una piccola serra dove si accampava la figura equivoca del furfante Babinsky inseguito da due lanzichenecchi vestiti da poliziotti e pronto a convincere Švanda, suonatore abile di cornamusa, novello sposo di Dorotka a volare con lui nel regno di Cuordighiaccio, triste regina dal cuore smorto abitante di una gigantesca casa di ghiaccio con una corte dai costumi e parrucche bianchi, truccata in bianco.  Švanda e Babinsky venivano raggiunti dall’abbandonata sposina incapace di capire le motivazioni dell’allontanamento dalla vita serena familiare del marito che grazie al suo talento musicale, riusciva ad incantare la regina; irretita dal suo fascino gli chiedeva un bacio d’amore suscitando l’ira dell’incombente Dorotka. Per l’astuto traditore, negatore dell’accaduto, si apriva l’abisso dell’inferno: una luce rossa arroventata piena di lingue di fuoco, corredata da una macchina trita persone. Švanda vendeva la sua anima al diavolo ma a riscattarla ci pensava Babinsky che barando ad una partita a carte consentiva al suonatore di cornamusa, ormai vecchio, il ritorno, in groppa alla valigia volante, alla sua casetta-serra dove l’attendeva una moglie ancora innamorata e generosamente pronta a perdonarlo. Il finale a lieto fine esaltava la fedeltà coniugale, soprattutto demitizzando i facili guadagni e l’ansia di successo castigando il ladrone condannandolo ad un’esistenza di solitudine e all’afasia del cuore. A cantare questa fiaba una compagnia di canto nel complesso ben assortita. Marjorie Owens nei panni di Dorotka, dotata di una vocalità sontuosa riusciva a regalarci momenti sentimentali liricamente risolti imponendosi anche per vigore drammatico nei momenti più conflittuali. Il suo Švanda era Pavol Kuban, gradevole per il timbro simpatico e prettamente baritonale che riusciva a disegnare tutte le pieghe del personaggio anche con completezza scenica e buona mimica. L’udovit Ludha nei panni di Babinsky affrontava una tessitura molto insidiosa del ruolo con una voce quasi al limite per spessore ed estensione ma sempre corretto per emissione ed intonazione. Stile ed adeguata corposità vocale mettevano in risalto la prestazione di Anna Maria Chiuri, la Regina;di buon taglio ma in qualche momento roboante, il Diavolo di Michael Eder. Completavano il cast con professionalità Roberto Abbondanza (lo Stregone), Alfio Marletta (il Giudice), Timothy Oliver (il Boia), Gianfranco Giordano (Lanzichenecco). Mikhail Agrest sul podio ha offerto una puntuale lettura della partitura ricca di tanti motivi, intento a dipanare con sonorità robuste sia le molteplici melodie ricavate dalla tradizione popolare boema che i momenti toccanti e lirici dei duetti senza però riuscire talvolta a scavare in certe sottigliezze e tratti di bellezze espressive.  Un particolare elogio va al coro istruito da Piero Monti la cui presenza era determinante sia nel primo atto, alla corte di cuordighiaccio che nel secondo occupante l’abisso infernale. Del tutto apprezzabile la coreografia di Gaetano Posterino e le luci di Fabio Antoci. L’operazione non è risultata molto gradita al pubblico che ha in parte disertato il teatro e qualcuno lo ha anche abbandonato dopo il primo atto, segno che di questo titolo non si sentiva il bisogno visto che l’Italia è ancora il paese del melodramma e c’è tanto da proporre per parlare al nostro tempo e alla nostra sensibilità. Comunque il pubblico presente è stato preso della parte visiva dello spettacolo che con i suoi mimi,le abili attrattive sceniche ha funzionato.

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