Centoquattro

(Carmelo Fucarino)

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Sul frontespizio una barca in un mare schiumoso con la croce al posto della vela e davanti Cristo che cammina sulle onde. Quasi a forma di didascalia: «Siamo tutti nella stessa barca». Quando padre Amato pronunziò questa epigrafe della vita, nella chiesetta di S. Giovanni Battista, che è ancora la sua parrocchia, da quando ne fu da lui promossa la fondazione, si levò una improvvisa calorosa ovazione. Poche lapidarie parole che danno il senso a tutta una vita vissuta nella lode del dono di Dio e additano a tutti la condivisione di un comune destino. Siamo tutti in una barca in mezzo al mare tempestoso. E quella immagine, parabola e realtà della vita cristiana, della vita in genere. Era il 29 agosto del 1910. Altri fratelli erano già pronti per redimere i fratelli del Nord, tanto sangue di poveri cristi siciliani inviati al macello. Un suo fratello era tanto grande che i commilitoni della stessa brigata al fronte lo scambiavano per fratello del padre. Lui avrebbe seguito altro percorso sulla barca di Cristo.

Nella facciata interna del ricordino la sua immagine in veste liturgica radiosa e di fronte l’invito a se stesso e a tutti gli uomini. Egli scandisce con forza, lentamente, con la sua voce tremula e flebile: «Percorriamo senza naufragare il mare della vita». Nella voce c’è l’invito del padre che ha percorso un secolo e più, nella piatta calma della bonaccia, ma anche nel turbine assordante delle bufere e del mare furioso. Ma c’è anche il sentimento del tempo che si dilunga e si perde negli attimi di felicità a noi concessi e nelle lunghe ore di apprensioni e di angosce. A ben rifletterci saranno stati tanti in questi suoi lunghissimi decenni. Ma l’invito soteriologico di evitare il naufragio si scioglie e si placa in una finalità che lo spiega e lo giustifica: «Per raggiungere sulle rive dell’eternità la meta ultima e sublimissima del nostro terreno pellegrinaggio. Il Paradiso». Calca e dilunga la voce su quel “sublimissima” ed esplode in un esaltante grido di giubilo, il Paradiso.Il mio professore di religione della scuola media, mons. Carmelo Amato, ha festeggiato con i suoi parrocchiani i 104 anni di vita, tantissimi vissuti nella lode del Signore, nel solco che il bel San Giovanni, che ogni anno ha voluto celebrare, voce che grida nel deserto, con i fuochi ben auguranti del solstizio di estate. Lui che ringrazia ogni anno che si aggiunge agli altri come “dono di Dio”. Io lo ho salutato con il salmo 23 di David, «Il Signore è il mio pastore; nulla mi manca. Egli mi fa riposare in verdeggianti pascoli, mi guida lungo le acque calme…» e con la celestiale esaltazione della vita in tutta la natura, il Cantico delle creature di Francesco di Assisi: «Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so le laude, la gloria e l’onore et onne benedictione…».Parlando delle chiese come luogo del divino e del mistico mi ricordava la bellezza della chiesa del convento della Madonna del balzo presso Bisacquino, in completa rovina nonostante il nome di Della Robbia e le sue maioliche. Si lamentava con dolore l’abbandono ai rovi di un luogo di sublime spiritualità, la completa perdita del senso del divino con le moderne strutture in cemento armato. Ricordava i due chiostri, gli altri due progettati e mai realizzati. Il percorso del primo corridoio di 110 passi, via assai lunga di meditazione, si concludeva con l’angolo in cui si ammoniva sul tempo e sull’ora che per tutti si avvicinava: Meis tua decurrit nutibus vita. Mi recitava la formula lapidaria latina, la cadenzava in quella forte antitesi iniziale e nel ritmo e la riprendeva lentamente con le giuste sospensioni. L’icasticità del latino che rilevava con enfasi, richiamandola nelle due semplici parole del campanile del duomo di Monreale: Tuam nescis. Il solo possessivo, non c’era bisogno della determinazione del nome horam. Infinita dolcezza ed ammonimento dall’alto della saggezza dei 104, insistente il richiamo al tempo, quel tempo che altre volte abbiamo commentato con Agostino l’africano e che ritorna anno per anno ad ogni anniversario. Con il gratiam redde per il dono che Dio continua ad offrirgli, gratis, per sua semplice grazia: la lucidità della mente che sa richiamare spontaneamente e senza sforzo i ricordi di una vita, mentre le gambe cominciano a perdere colpi nel reggerlo. Perciò mi piace lo stridente accostamento alla vita che nasce nella fotografia in copertina: 4 mesi in braccio a 104 anni.

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