Fermate gli sposi!
(Carmelo Fucarino)
Avevo ammirato nelle mie scorribande nelle librerie di New York le pile di volumi e le copertine soft della scrittrice Sophie Kinsella. Perciò mi ero fatto l’idea che fosse americana, ma non avevo osato approfondire nonostante la semplicità del fraseggio dei suoi libri. L’occasione delle visite estive in libreria, la sua presenza e il formato del volume hanno acceso la mia curiosità. Già mi ero imbattuto nel volume di David Grossman, A un cerbiatto somiglia il mio amore, e avevo trovato una certa difficoltà per il curioso taglio dell’edizione. Anche e forse più per i caratteri assai minuti e la mole del volume. Del suo contenuto mi riservo di parlare quando lo avrò più profondamente elaborato nella mia coscienza turbata e piena di dubbi per la tragedia che ancora devasta la culla delle religioni e del divino, in nome di Dio diversamente detto. Anche se Grossman me ne ha sciolti moltissimi, ma ne ha acceso tanti altri. La provocazione del formato, dicevo, con curioso composto, flipback, “volta indietro”, e la solita concessione brevettata, una trovata olandese acquisita dall’editrice italiana. Il libro nella forma di un foglio elettronico, due pagine aperte per lungo, addirittura senza numero di pagina nella prima. Ho provato a tenerlo in pugno e sfogliarlo secondo le istruzioni per l’uso, ma non ci sono riuscito. Bella visione, ma assai scomoda per chi approfitta della calma notturna del letto, difficile da reggere aperta e pure da leggere anche per i caratteri adatti a gatti e linci.
Comunque la Sophie Kinsella mi convinse a proseguire nella prova di pazienza. E mi sono ritrovato intanto in un ottocentesco nom de plume di Madeleine Wickham, di nascita e residenza londinese. Una europea con il vantaggio consumistico della lingua globale. Come certi film famosissimi che scambi per americani ed invece nei titoli finali scopri girati negli stabilimenti della Hollywood londinese. Qua la questione per me si fece più intricante, si dice così, per il genere di pubblicazioni della scrittrice. E perciò la lettura di questo ultimo che sembrava adatto alla scoperta, il Wedding Night, un La notte di nozze, uscito a Londra e a Milano nel 2013. L’edizione italiana è più esplicita in quel Fermate gli sposi! che ne rivela, insensatamente e crudelmente per il compratore, l’intreccio. Tutto il gioco, portato avanti con leggerezza comincia con quel semplice «I have bought him an engagement ring. Was that a mistake?». Prosegue con una serie di colpi di scena e di piroette con l’insistente domanda a livello del ragazzino di professione bugiardello se Ben è riuscito a «mettere la salsiccia nella pagnotta». Ben alla fine non ci riuscirà. Le trovate si susseguono a rotta di collo ed è prevedibile che il film che si suppone ne seguirà avrà la fortuna delle commedie tipo matrimonio greco. Anche perché anche qui la protagonista della storia è l’immaginifica isola greca di Ikonos (Mykonos? O satellite artificiale per immagini?), assunta come sorgente del ricordo che sbiadisce con gli anni. Poi si dispiegano tutti i più vieti luoghi comuni, la cronaca dell’anno, il ricco sfigato, erede di una cartiera, il ricchissimo russo sempre malavitoso, l’hotel super lusso, le gag degli aeroporti, in un botta e risposta che narra la storia dai diversi punti di vista dei personaggi. Il decalogo manzoniano, “non farò, non farò”, e la sapienza da aforisma del vecchio Arthur in cima alla sua locanda in disarmo: «Non tornate indietro, dico sempre. Non tornate indietro. La giovinezza è ancora là dove l’avete lasciata, e là deve rimanere. Non tornate indietro. Tutto quello che valeva la pena di portare con sé nel viaggio della vita, ve lo siete già preso». E allora? Lo stupore è mio. Mi sono trovato nell’inganno dell’involucro sfizioso e del fascino della tecnica americana. Sono bravi loro nell’etichettare generi, in tutte le arti. Ed acronimi arcani. Mi viene in mente quello di Lions. Mi giro e rigiro in queste sigle e in queste formule seriali. Tutto è in serie. Dai criminali ai libri che ne narrano le storie. Ma anche la letteratura e l’arte tutta. Tutti sanno oggi che la letteratura è postmoderna, che chi scrive oggi è postmoderno, anche se narra fatti dei nonni con strutture omeriche. Ma che vuol dire? Eravamo abituati ad oggettivare l’estetica, talvolta a storicizzarla. Oggi la stiamo serializzando. Soprattutto stiamo etichettando i particolari. Apprendo che Kinsella con il suo vero nome anagrafico scriveva romanzi rosa (sette per la precisione) e che ora con pseudonimo è passata al genere chick lit, la consueta abbreviazione per dire chicken literature, per dire “letteratura da pollastrella”. È certamente un genere più adatto alla nuova generazione di donne dinamiche, si dice con orgoglio “post-femministe”. Ma con tutti i luoghi comuni della letteratura di “genere”. A partire da Orgoglio e pregiudizio fino a Il diario di Bridget Jones. In Italia il genere ha con un suo romanzo un nome di prestigio, Geppi Cucciari. Negli anni successivi alla liberazione della donna e in sintonia con tutti i prodotti di “genere” siamo tornati a Delly e a Dora Mancuso. I libri che le mie coetanee divoravano e che io non osavo sbirciare per correttezza, che loro custodivano gelosamente. Erano libri per donne, anzi per signorine. Anche recentemente ci fu per donna una gloriosa collana di un editore che di collane se ne intendeva, vedi i geniali Gialli, ma anche Medusa e Urania. La recente collana di genere era Harmony. Con grande mio stupore e dolore ho scoperto che anche la letteratura vuol crearsi una riserva indiana con un salto all’indietro, ma una sigla nuova di zecca. D’altronde se le leggi sono volte al fifty-fifty di “genere” donna, certamente giovane e bella (non alla Rosy Bindi bistrattata), le ministre da spiaggia, senza priorità per le competenze, siamo messi proprio malissimo.